In piedi con un libro in mano. la lettura come rivolta

by Sergio Segio | 5 Luglio 2013 8:03

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Traevano ispirazione dalla rigorosa filosofia di Nikolaj Aleksandrovic Berdjaev che negava ogni forma di fusione collettiva delle volontà, e delle relative musiche e sventolii, così come ogni ascendenza al movimento operaio ottocentesco e più indietro alla tradizione militare. Al posto di tutti questi cerimoniali e paramenti, la pura e nuda presenza — l’esser lì — a simboleggiare una testimonianza singola e irriducibile a qualsiasi universale, un atto di responsabilità individuale e totale portato fino alle — quasi auspicate — conseguenze estreme. Il gesto pubblico sì, collettivo no. Le forme odierne del manifestare si stanno polarizzando. Da un lato l’antico e tradizionale corteo, l’antica e tradizionale folla, assume la dimensione del gigantesco, del colossale, come le impressionanti e ondeggianti maree umane delle piazze brasiliane ed egiziane, con il corredo — alquanto anticlimax — di fuochi d’artificio e botti vari. Dall’altro la nuova forma, inventata dai giovani turchi — quelli veri —, ma applicata con diligenza anche dagli oppositori francesi al mariage pour tous, consistente nello stare in piedi a diversi metri di distanza l’uno dall’altro nell’atto di leggere (o effettivamente leggendo) un libro.

La lontananza reciproca ha una funzione pratica difensiva e per questo verso poco berdjaeviana: il non incorrere nella fattispecie di manifestazione non autorizzata, come si può intuire dalla faccia e dai muscoli dei poliziotti francesi, non tanto addentro alla filosofia russa. Ma anche un evidente valore simbolico: non un gruppo, non una massa, non un insieme, ma singoli e autonomi individui, ognuno decidente per sé e responsabile di sé. L’elemento nuovo e inedito è il libro, fin qui assente dalle manifestazioni pubbliche. Non fa testo (è il caso di dirlo) infatti l’antologia di Mao Zedong, curata dal compianto e sfortunato Lin Biao e nota come Libretto rosso, minacciosamente brandita in infinite manifestazioni non solo in Cina, ma nel cuore della colta e civilissima Europa. Si trattava di «quel» libro, sacro com’è ovvio, e non di «un» libro qualsiasi e cioè «del» libro in quanto tale, così come è oggi. Anche in questo odierno uso del libro non è difficile ravvisare l’intento difensivo e poco berdjaeviano.

Chi sta leggendo fa altro, non è occupato a turbare la quiete pubblica. Ma c’è qualcosa di più, forse di molto di più. Innanzitutto un dato sociale, di rispetto e di dissuasione sociale. Chi legge non è uno scamiciato, un energumeno intenzionato a menar le mani. Appartiene a un ceto per definizione superiore, armato di un secolare prestigio tanto quanto si presenta ostentatamente indifeso. Ma soprattutto nel puro gesto del leggere, nell’isolamento fisico e nella concentrazione della lettura, si manifesta l’appartenenza a un ordine di realtà diverso da quella sensibile, più alto e lontano. Chi legge, proprio perché si sottrae, perché non è del tutto qui, presente, ci appare avvolto da una sorta di intangibilità, di immunità, da una campana di vetro che lo protegge. Il lato geniale di questa forma di manifestazione è proprio quello di collegare il più forte simbolo e talismano dell’interiorità — il libro — con quello che è apparentemente il suo opposto, cioè la dimensione dell’intervento pubblico. A pensarci bene una forma, forse la più efficace, di promozione del libro.

Gian Arturo Ferrari

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