Il potere all’immaginazione
L’immaginazione, diceva Malebranche, è la pazza di casa. Certo non è la smemorata di Collegno, visto che l’immaginazione è essenzialmente una modificazione della memoria, come diceva Vico («memoria dilatata e composta») e come ribadisce con ricchezza di argomentazioni e documentazioni Alberto Oliverio nel suo recentissimo Immaginazione e memoria (Mondadori Università). Nemmeno a Kant è riuscito di chiarire che cosa potrebbe essere una immaginazione totalmente produttiva, senza ritenzione e ripetizione. L’immaginazione pesca nel mondo, combina, e solo attraverso queste combinazioni crea. Alla creatività dell’immaginazione si presta benissimo il detto di Pascal posto in esergo (e in difesa) delle sue
Pensées: «Non si dica che non ho detto niente di nuovo: nuova è la disposizione delle materie».
Al tempo stesso, però, è proprio questa vicinanza con la memoria ciò che rende davvero enormi i poteri dell’immaginazione. Lo ha visto bene Stanley Cavell in un libro di parecchi anni fa, Guardare il mondo.
Riflessioni sull’ontologia del film: «È una misera idea della fantasia quella che la considera un mondo a parte rispetto alla realtà, un mondo che mostra chiaramente la propria irrealtà. La fantasia è precisamente ciò con cui può essere confusa la realtà. È attraverso la fantasia che viene stabilito il valore della realtà. Rinunciare alle nostre fantasie sarebbe rinunciare al nostro contatto col mondo». Come si può leggere in
Nuove teorie dell’immaginazione, l’ultimo numero della Rivista di estetica (a cura di Daniela Tagliafico) l’immaginazione più che una facoltà dovrebbe essere considerata come un modo per simulare altre facoltà: percezione, ricordo, pensiero. Ecco dunque la differenza — sempre instabile, ed è questa instabilità che fa vacillare la distinzione tra storia e invenzione — tra memoria e immaginazione: la prima fissa e, almeno in linea di principio, rielabora il meno possibile. La seconda invece articola, modifica, sposta, ricostruisce. In questo semplice scarto abbiamo la nascita dell’arte.
Si è parlato molto, per esempio dopo lo Strega a Siti, di “autofiction”, ma — se l’immaginazione è tanto legata alla realtà attraverso la memoria — c’è un senso, persino ovvio, in cui ogni fiction è autofiction. Lo ricordava proprio Siti su Repubblica del 19 luglio scorso, ed è già l’insegnamento di
Poesia e verità di Goethe: «Il 28 agosto 1749, a mezzogiorno, al dodicesimo rintocco della campana, io venni al mondo a Francoforte sul Meno», dove l’anagrafe sprigiona la stessa poesia che Proust cercava (e come dargli torto?) negli orari ferroviari. Perciò insistere sulla riproduttività della immaginazione non vuol essere un tentativo per ricondurre banalmente la creazione alla vita, ma, proprio al contrario, per mostrare quanto la creazione debba alla vita, e la finzione alla realtà.
Lo si può verificare anzitutto per via negativa, in un modo un po’ perverso, considerando come talvolta la scusa della finzione, quella che potremmo chiamare “licenza poetica”, venga adoperata per attenuare le conseguenze delle proprie affermazioni. In termini freudiani, si tratta di una “denegazione”: si asserisce che i fatti narrati sono immaginari, che i giudizi espressi sono letterari, per evitare censure di vario tipo. Questa modalità è particolarmente interessante perché è la prova più forte — appunto per via indiretta, di denegazione — di quanto l’immaginazione sia intrisa di realtà. Qui l’appello al registro letterario (e alla sua dimensione fantastica) può addirittura essere come giustificazione di affermazioni che in un contesto “serio” sarebbero irricevibili. La denegazione è particolarmente interessante perché contemporaneamente afferma e nega il proprio tenore realistico, o più esattamente, a norma freudiana, lo afferma negandolo. È, banalmente, la classica formula liberatoria «Ogni riferimento a fatti e a persone reali è da considerarsi puramente casuale», che non sempre funziona, perché indubbiamente non è bastato l’anno scorso a Richard Millet, editor di Gallimard, intitolare il suo pamphlet Elogio letterario di Anders Breivik (dove tutta la speranza assolutoria si concentrava in quel “letterario”) per far dimenticare che la strage elogiata non era letteraria ma reale.
Ma anche quando non prende temi o trame dalla cronaca o dalla storia, resta che l’immaginazione trae sistematicamente alimento e materia dal reale. Anche il poema più orfico rigurgita di realtà (oggetti, sapori, suoni: dopotutto, l’assiuolo di Pascoli fa effettivamente «chiù»), così come la fantasia più sfrenata è fatta interamente di reale, se pure si trattasse soltanto di colori. Ma soprattutto — e non troppo paradossalmente — dal reale viene anche la quintessenza dell’immaginazione, ossia la sorpresa. Quale Kleist avrebbe potuto immaginare la vicenda dell’africano che gira per Milano all’alba uccidendo le persone a picconate? Una specie di Michael Kohlhaas con una drammaticità in più, perché la richiesta di giustizia che si trasforma in crimine non è neppure consapevole, e si abbatte su innocenti. Su tutto, domina lo stigma preciso del reale, l’imprevedibilità, lo “sporgere”, come ha a giusto titolo ricordato Siti.
Soprattutto nel caso della sorpresa, la realtà fa valere i suoi diritti smentendo le nostre aspettative e il nostro senso del verosimile, mettendoci in contatto con una pura e semplice realtà, un reale nudo e senza filtri simbolici, come lo definisce Lacan parlando delle psicosi, un mondo di oggetti che ci accompagna dalla nascita alla morte. Abbiamo parlato poco fa della nascita di Goethe. Ci hanno anche insegnato che le sue ultime parole furono «più luce», mehr Licht, quasi un «fiat lux». Ma il contesto completo era prosaico, «apri pure l’altra imposta per fare entrare un poco più di luce», e un’altra interpretazione vuole che Goethe in realtà avesse detto mir liegt schlecht, questo letto «è scomodo», in dialetto francofortese. È un fatto comune. Nelle agonie, se il morente parla, si riferisce sempre a cose reali, a oggetti e ad azioni: a lavatrici da fare, a fiori da innaffiare, a pneumatici da cambiare. O a galli da restituire, come nel caso di Socrate, le cui ultime parole, che Nietzsche considera «ridicole e terribili» e interpreta rocambolescamente come «O Critone, la vita è una malattia!», sono «Critone, dobbiamo un gallo ad Asclepio, dateglielo, non ve ne dimenticate».
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