Il Pd: niente sfiducia E Renzi si riallinea

by Sergio Segio | 19 Luglio 2013 6:52

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ROMA — «Se ho una qualità, quella è che non mollo. Sul congresso aspetto le regole», è la frase che consegna prima che Enrico Mentana chiami il time out per la pubblicità di Bersaglio mobile . Ed è, di fatto, una promessa per il futuro prossimo. Perché il presente, il presente di Matteo Renzi, sta nella (momentanea?) consegna delle armi. Quelle nei confronti del governo, perché «da domani per loro non esisto più», «resto a Palazzo Vecchio» e «chiudo la discussione, basta con l’idea di essere accusato di stare a fare costantemente il controcanto a Letta». E quelle sul partito, in cui la guerra da «combattuta» si trasforma in «fredda», con la domanda del direttore del Tg La7 sulle sue dimissioni dalla direzione del Pd che rimane in sospeso. «Da domani stop alle interviste, basta essere un alibi» per quel governo «del fare che rischia di trasformarsi nel governo del rinviare». Renzi non lo sa ma, mentre lui parla in diretta tv, Massimo D’Alema ribadisce che «sarebbe un buon candidato premier», giudicando un «errore» la sua corsa per la segreteria.

Il colpo di scena serale, insomma, non arriva. E la blindatura di Giorgio Napolitano nei confronti del governo Letta regge. E riallinea il Pd nel voto contrario alla mozione anti-Alfano.

Quando il gruppo al Senato si riunisce per discutere della mozione anti-Alfano, l’eco del «nessuno si avventuri» pronunciato dal Presidente aveva già raggiunto la saletta di Palazzo Madama. A chiedere il voto contro il vicepremier erano stati in tredici. Su quella posizione rimangono solo in sette. Tra cui tre renziani, Laura Puppato e Walter Tocci.

Il primo a sfilarsi è proprio uno dei promotori della mozione «ribelle», il renziano Stefano Lepri. «Accolgo l’appello di Napolitano». Una frase che sa molto dell’«obbedisco» di garibaldina memoria. Andrea Marcucci, anche lui renziano, prova a resistere: «Presentiamo una nostra mozione di censura contro il ministro, allora, no?». Gli risponde un terzo sostenitore atipico del sindaco di Firenze, Giorgio Tonini, considerato vicino al Quirinale. «La proposta di votare la mozione di sfiducia era sgrammaticata. Ma una mozione nostra, scusate, chi ce la voterebbe?».

Finisce con 80 sostenitori della tesi di Guglielmo Epifani, «sfiducia no, critiche al Alfano sì». E con l’applauso all’intervento di Dario Franceschini: «Non si può andare a avanti così. Non possiamo continuare ad avere a che fare con le tante anime belle che ci sono tra di noi, che si smarcano sulle nostre decisioni e lucrano consensi facili alle nostre stesse spalle». Un intervento che Pippo Civati, assente alla riunione, archivia in un tweet come una minaccia di espulsione per chi dissente. Con l’effetto collaterale di mandare su tutte le furie Franceschini stesso: «Questo è un falso e un bugiardo, uno che butta m… addosso e basta». Ed è niente rispetto alla sorpresa che si materializza nell’assemblea dei deputati. Quando la palma della più applaudita dai renziani se l’aggiudica Rosy Bindi, nemica storica del sindaco. Che prende di mira tanto Letta («Il vicesegretario del Pd non poteva fare il premier») quanto Napolitano («Sul fatto che non ci sia una responsabilità oggettiva di Alfano, il presidente sbaglia. Il fatto che non ci siano responsabilità penali non vuol dire che non ce ne siano di politiche»). A conti fatti, rimarrà l’unica pd a criticare il Colle. Una colonna d’Ercole di fronte a cui, in serata, si ferma anche Renzi.

Tommaso Labate

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