Il padrone francese

by Sergio Segio | 15 Luglio 2013 6:43

Loading

Allons enfants de l’Italie. Anche il povero Inno di Mameli, ormai, inizia a tremare. I galletti di Francia hanno rialzato la cresta. E a 7 anni dalla dolorosissima (per loro) sconfitta contro gli azzurri nella finale dei Mondiali di calcio 2006 — corredata dalla testata piena di frustrazione di Zinedine Zidane a Marco Materazzi — sono partiti, com’è successo tante volte nella storia, alla conquista dell’Italia. L’esercito, all’alba del terzo millennio, serve a poco. Bastano i soldi. E così, un’acquisizione alla volta, la premiata (e un po’ acciaccata) ditta Belpaese Spa rischia di diventare una provincia dell’impero industriale di Parigi.
La scalata di Louis Vuitton Moet Hennesy (Lvmh) al cashemere di Loro Piana, l’ultimo trofeo tricolore dei cugini d’Oltralpe, è solo l’ennesimo capitolo di una silenziosa colonizzazione iniziata due secoli fa. Quando Napoleone — accolto come un liberatore dalle nostre parti — si è riportato a Parigi da Venezia, come souvenir della campagna d’Italia, i quattro leoni di Bronzo della Basilica di San Marco. Oggi non è cambiato niente. Lo Stivale è diviso da mille campanili, debole e in crisi. E lo shopping dei conquistatori transalpini, «molto più bravi di noi a far sistema» come spiegano papali papali Sergio e Luigi Loro Piana, continua senza incontrare resistenza.

Sventola il tricolore — ma quello blu, bianco e rosso — sul latte che beviamo ogni mattina (Parmalat) e sui supermercati dove facciamo la spesa (Carrefour e Auchan). I francesi ci vendono il gas per la cucina e lo scaldabagno (Edison) e l’acqua che esce dal rubinetto di casa nostra. Hanno messo un’ipoteca con Air France sulla cloche di Alitalia e un piedino, anzi un piedone, nell’alta velocità dove Sncf — le ferrovie transalpine — sono partner industriali di Italo.
«Siamo l’Europa Unita, le nazioni non contano più» è il mantra di chi, come Andrea Illy, prova a gettare acqua sul fuoco. I numeri però fanno lo stesso impressione: delle 437 grandi aziende tricolori finite all’estero tra il 2008 e il 2012 almeno il 15%, secondo Kpmg, sono finite nell’orbita di Parigi. E questa Opa “strisciante” sta vivendo la sua apoteosi nel mondo dorato delle griffe, una delle ultime eccellenze industriali della penisola: Lvmh, Pinault & C. hanno già messo le mani, staccando assegni da favola, su un bel po’ di marchi di casa nostra (Bulgari, Gucci, Fendi, Bottega Veneta, Pomellato, Pucci e Acqua di Parma). E ora, ciliegina sulla torta, ci hanno soffiato persino il panettone, comprandosi per una montagna di euro la storica pasticceria Cova, cuore dolce di via Montenapoleone.
«Siamo alle solite — dice ridendo l’economista Jean-Paul Fitoussi — . L’Italia non può piangere di tutto e poi anche del suo contrario! Prima ci si lamenta perché non ci sono investimenti esteri diretti. Poi, quando arrivano, si piange lo stesso. Bisogna vedere il lato positivo della medaglia. Se c’è chi vuol comprare le aziende del vostro Paese vuol dire che siete ancora capaci di creare realtà attrattive efficienti ». Possibile. E in effetti sull’asse dell’interscambio commerciale tra Roma e Parigi non ci possiamo lamentare: l’Italia — come ha calcolato Marco Fortis, professore dell’Università Cattolica di Milano — vanta un surplus commerciale «di 11,9 miliardi » con i cugini d’oltralpe. Segno che esportiamo molti più beni (meccanica soprattutto) di quanti ne importiamo.
Il problema però è il solito: sarà che abbiamo «una Borsa troppo asfittica», come sostiene Fitoussi o che siamo un Paese di «inguaribili individualisti», per dirla con Andrea Buccellati, manager dell’omonima griffe. Il risultato è lo stesso: vinciamo a mani basse con i francesi (e non solo con loro) tutte le sfide nelle categorie minori dai pesi piuma in giù, quando sul ring salgono le piccole e medie imprese. Ma perdiamo per ko sul fronte dei pesi massimi, dove — assicurano gli esperti — si giocano le sfide decisive della globalizzazione. Un dato: nella classifica Fortune delle prime 500 aziende mondiali, quelle italiane sono solo nove contro le 32 transalpine. E tra le prime 50 la sconfitta è ancora più secca: cinque a uno, con l’Eni rimasta da sola a difendere con i denti l’onore dei giganti di casa nostra.
Come mai? «Merito — spiega Fitoussi — del capitalismo di relazioni ». Qui in Italia l’abbiamo declinato in senso stretto. Nel senso che è servito per decenni a fare gli interessi di un club esclusivo riunito attorno a Enrico Cuccia e a pochi (e spesso squattrinati) imprenditori. Con i risultati in molti casi disastrosi che oggi sono sotto gli occhi di tutti. «Per noi invece è stata una benedizione », dice l’economista. Le partite si vincono in 11. E Parigi è da sempre molto più squadra di noi. «Abbiamo in regia un capitano e regista indiscusso: lo Stato », dice l’economista. In campo anche come giocatore, visto che ha ancora in portafoglio partecipazioni per 660 miliardi, 90 dei quali in società quotate: la posta, le ferrovie, ma anche il 15% di Renault, l’88,8% di Areva (nucleare), l’84,5% di Edf (che da noi ha scalato Edison), il 38,9% di Gdf-Suez (azionista di Acea), il 16% di Air France, il 15,1% di Eads, quote intorno al 30% di giganti della difesa come Safran o Thales.
A far camminare queste aziende e i maggiori colossi privati ci pensa poi il resto della squadra della Francia Spa. Una riedizione virtuosa (almeno per Parigi) del capitalismo di relazione, fatta di manager cresciuti assieme nei ranghi dell’Ena, la scuola di pubblica amministrazione nazionale, e sostenuti nelle loro avventure imprenditoriali da un sistema bancario privatizzato ma ancora sensibilissimo alla moral suasion della politica. Affiancati poi in un groviglio armonioso da uno Stato (questa volta nel ruolo di arbitro) pronto a riscrivere a proprio uso e consumo, quando serve, le regole del gioco. Ne sanno qualcosa i pochi “condottieri” italiani (e non solo loro) che negli ultimi decenni hanno porvato a mettere il naso nell’Esagono per comprare un’azienda. Gianni Agnelli, che pure da queste parti era di casa, non è riuscito a bersi l’acqua Perrier. La contraerea dell’estabilishment parigino ha affondato l’assalto dell’Enel a Suez. Piccole Waterloo che non hanno risparmiato nemmeno giganti ben più attrezzati di noi. Chi tocca la Francia (e le sue aziende) rischia di scottarsi le dita. Il governo — tra le proteste e i distinguo della Ue — ha stilato una lista di undici settori strategici (tra cui difesa ed elettronica) dove i margini di manovra per ope ostili è pressoche nullo. Contro questo muro di gomma sono rimbalzate la Novartis (farmaceutica) quando ha provato a comprare la Sanofi, i tedeschi della Siemens che avevano messo gli occhi sulla Alstom o persino
la Pepsi Cola pronta a scalare la Danone. E quando non bastano le regole entra in nome del pubblico interesse, lo Stato in persona. Appena la General Mills americana ha provato a comprarsi gli yogurt della Yoplait, si è trovato tra i soci il Fondo strategico transalpino (pubblico) messo di sentinella dall’Eliseo per evitare delocalizzazioni di impianti. Argomento delicatissimo in un paese dove la manifattura pesa solo per il 10% (contro il 29% della Germania) sul valore aggiunto dell’economia.
Mal comune, insomma, mezzo gaudio. Certo, i tempi in cui le squadre di Serie A facevano shopping nella Ligue 1 portandosi via i gioielli transalpini come Michel Platini e lo stesso Zidane sono lontani. Come quelli in cui Pesenti e Montedison scalavano Ciments Francais e Beghin Say. Oggi, anzi, è il Paris Saint Germain (Psg) che ci ruba Cavani e Verratti. Siamo però alla nemesi storica. I Galletti fan la voce grossa a casa nostra. Ma a guardar bene (come dimostra l’addio recentissimo alla tripla A) non sono messi poi molto meglio del Belpaese. Sul Psg, per dire, cosa che sulla Senna ha fatto storcere il naso a molti, sventola la bandiera dei nuovi ricchi del Qatar, i Napoleoni del terzo millennio. Anche la patria della Grandeur ha il blasone un po’ appannato. E non può nemmeno consolarsi bevendo Champagne: il nuovo re delle bollicine mondiali per bottiglie vendute, lunga vita all’Italia, è il Prosecco. A Parigi, noblesse oblige, sembra non essersene accorto nessuno…

Post Views: 170

Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/07/il-padrone-francese/