I GENERALI E LA PIAZZA

by Sergio Segio | 2 Luglio 2013 8:16

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E che soddisfi le “richieste del popolo”. In caso contrario, le forze armate imporranno una road map finalizzata a trovare soluzione alla crisi, resa palese dalle imponenti mobilitazioni contro Morsi del 30 giugno.
Di fronte al precipitare degli eventi, la parola torna, dunque, ai militari che, solo un anno fa, sembravano essere stati sospinti nell’ombra dall’inarrestabile ascesa dei Fratelli Musulmani. Imponendo coercitivamente un percorso di unità nazionale, i militari non si propongono il ritorno ai tempi di Mubarak. Affermano di non voler essere coinvolti nella gestione politica e di rispettare le norme democratiche, ma rivendicano il ruolo di custodi degli interessi e della sicurezza della nazione, minacciati dalla crisi politica e economica. Del resto, la gestione diretta del potere sarebbe problematica sul piano interno e internazionale. Non avrebbe il consenso di Washington che, non a caso, di fronte agli ultimi sviluppi in riva al Nilo ha invocato “moderazione”. Per quanto le transizioni seguite alle primavere arabe si siano rivelate problematiche per gli Usa, Obama non potrebbe legittimare mutamenti che mettano a repentaglio i processi di democratizzazione seguiti alla caduta dei regimi autocratici. Anche se il pronunciamento del Consiglio supremo militare, presieduto dal ministro della Difesa Al Sissi, si manifesta palesemente come la voce del sovrano nello stato d’eccezione.
A piazza Tahrir l’opposizione ha gioito all’annuncio dei militari, anche se le sue richieste – dimissioni di Morsi, nomina di un capo del governo tecnico, presidenza della Repubblica provvisoria affidata al presidente della Corte costituzionale – , dovranno ora essere negoziate con il partito della Fratellanza, Libertà e Giustizia.
La situazione resta critica. Quale sarà l’atteggiamento dei Fratelli Musulmani e di quel fronte salafita che ha dato vita a uno schieramento chiamato – significativamente per forze che, sino a qualche anno fa, consideravano la democrazia una forma di idolatria al cospetto della sovranità divina – Fronte per la difesa della legittimità democratica? La convulsa crisi egiziana mette in mostra un evidente paradosso: gli islamisti sono divenuti i cantori della democrazia in nome della legittimazione acquisita nelle urne; e i democratici, che invocano il primato della politica sull’esito del voto, non esitano a salutare con entusiasmo il pesante intervento nel gioco dei militari. Per gli islamisti i voti si contano e pesano più delle firme e delle piazze; mentre i liberali e democratici chiedono un ritorno alle urne ma solo dopo l’abrogazione di una costituzione ritenuta ilritorno legittima anche se confermata da un referendum popolare. Un rovesciamento di categorie politiche consolidate.
Da un simile scenario, che rivela innanzitutto l’incapacità delle forze di filiera dei Fratelli Musulmani davanti alla difficile prova del governo, potrebbero trovare alimento le correnti salafite che hanno sempre sostenuto che se l’andare al governo degli islamisti non si fosse tradotto nella costruzione dello Stato islamico, il rischio del ritorno del “potere empio” sarebbe diventato elevato. Una presa d’atto, nutrita dal fantasma della memoria del golpe bianco di Algeri nel 1991 che, negli ambienti più radicali, potrebbe preludere a un alla scelta del jihad nazionale. La crisi in riva al Nilo è destinata a riverberare le sue convulsioni dentro e fuori il paese.

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