Google, solo 1,8 milioni di tasse in Italia colossi mondiali al sicuro nei porti franchi

by Sergio Segio | 21 Luglio 2013 9:39

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IL G20 rilancia la guerra globale all’elusione fiscale delle grandi imprese. Questa sfida ci riguarda davvero tutti, molto da vicino. È al cuore di qualsiasi tentativo di fare ripartire una crescita sana che sconfigga la disoccupazione. Fatevi i conti in tasca.

E IMMAGINATEVI, per un attimo, di pagare l’1,8 per mille (non per cento: per mille!) di prelievo fiscale complessivo sul vostro reddito. Pensate di quanto potreste aumentare i vostri consumi, dando così il vostro personale contributo alla ripresa, alla creazione di lavoro. Un sogno? Per noi comuni mortali, certamente. Non per Google, o Apple, i nuovi leader del capitalismo globale. La prima ha versato al fisco italiano 1,8 milioni di tasse, nel 2012 come bel 2011, a fronte di 52 milioni di ricavi e 2,5 milioni di utili. Il suo fatturato mondiale è di 50 miliardi, l’utile netto di 10 miliardi. Poichè in molte altre parti del mondo, America inclusa, queste multinazionali riescono a sfruttare tutti i cavilli giuridici per eludere legalmente l’imposizione, quel livello di 1,8 per mille non è per loro un’utopia, è una media. E’ proprio di quell’ordine percentuale (“per-millesimi”, sarebbe più esatto) l’esborso di Apple al fisco americano: 1,8 per mille. Lo ha certificato il suo chief executive Tim Cook davanti a una commissione d’inchiesta del Senato americano. Assicurando, ovviamente, che tutto questo avviene nel rispetto delle leggi. Affermazione purtroppo esatta. Su 100 miliardi di utile netto “collocato” in una filiale fantasma in Irlanda, Apple ha pagato pochi milioni d’imposta.
L’elusione è cosa diversa dall’evasione. Chi evade viola le leggi del suo Paese, truffa lo Stato, si espone al rischio di pesanti sanzioni, in certi casi anche penali. Nell’elusione, invece, tutto avviene nel rispetto delle regole, anche se di fatto una vasta base imponibile si sottrae al prelievo. Nell’elusione, l’incitamento a non pagare viene dai governi. E’ un fenomeno che dura da decenni: la concorrenza fiscale tra Stati. Alcuni Stati più di altri, cercano di attirare le multinazionali offrendo condizioni di favore, esenzioni fiscali, trattamenti privilegiati. All’origine questa concorrenza fiscale tra Stati fu teorizzata come virtuosa, dai neoliberisti. L’idea era questa: se il mio Stato è più efficiente, la cosa pubblica è gestita meglio, con meno sprechi, può permettersi di ridurre la pressione fiscale sulle imprese. In questo modo attira investimenti, ricchezza, occupazione. Alla fine per non essere ridotti in miseria gli Stati meno efficienti dovranno adeguarsi, e seguire l’esempio dei migliori, riducendo sprechi e inefficienze e portando la pressione fiscale al livello più basso. Questa la teoria. La pratica si è rivelata molto diversa. Anzitutto, la concorrenza fiscale ha funzionato solo a vantaggio delle multinazionali e del capitale finanziario: soggetti che possono facilmente spostarsi da un Paese all’altro, a caccia delle condizioni più generose. Impossibile, per il lavoratore dipendente (e anche per la piccola impresa) avere la stessa mobilità, e andarsene laddove il fisco è più leggero (pochi Vip hanno la possibilità di mettere residenza a Montecarlo, non è un’opzione alla portata delle masse). L’altra brutta sorpresa è stata questa: le multinazionali si sono lasciate attrarre dagli sconti fiscali, ma non per questo hanno creato vera ricchezza. L’Irlanda ha avuto un risveglio brutale, dopo essere stata per anni la nazione europea più spregiudicata nell’offrire condizioni meravigliose alle imprese straniere. Apple ha ubicato in Irlanda la sua filiale che realizza la massima parte dei profitti mondiali. Ma quella filiale non è un’azienda vera, con stabilimenti e dipendenti. E’ un guscio vuoto, un’entità giuridica che serve solo a mettersi in regola con le normative dell’Irlanda e degli Stati Uniti. Amazon, Starbucks e tante altre imprese globali della New-New Economy, si comportano in modo simile.
La favola neoliberista che vedeva nella concorrenza fiscale tra Stati un gioco virtuoso, si è rivelata una beffa crudele. Per tutti fuorchè per le multinazionali. Sia pure con grande ritardo, finalmente il vento sta cambiando. Poichè un pò dappertutto nel mondo gli Stati sono a corto di risorse, e non possono spremere ulteriormente il lavoro dipendente o i piccoli imprenditori già duramente colpiti, il tema della lotta all’elusione è entrato nell’agenda dei governi. L’Ocse ha fatto proposte importanti. Il G8 ha adottato un piano all’ultimo summit a Lough Erne sotto la presidenza inglese. Ancora più importante è l’adesione del G20, perchè nel G20 siedono anche i leader delle potenze emergenti come la Cina. E alcuni dei paradisi fiscali offshore ora si trovano proprio da quelle parti: Hong Kong e Singapore. E’ fondamentale che l’accordo anti-elusione coinvolga il maggior numero possibile di Stati. Se qualcuno fa il furbo e si chiama fuori, quello diventa il rifugio verso cui convergeranno le multinazionali. Se il concerto delle nazioni è armonioso e concorde, l’elusione si può eliminare rapidamente.
I proclami dei summit sono importanti quando rappresentano, come in questo caso, un cambio di paradigma, la rottura con un’ideologia neoliberista che fu egemone per decenni. Ancora più importante è che una volta tornati a casa, i governanti mantengano gli impegni. Ognuno deve fare pulizia in casa propria, impugnare la scure contro le leggi speciali, i privilegi annidati nella propria normativa. La tentazione di attirare investimenti esteri diventando “porto franco” è antica e insidiosa. Nessuno se la può più permettere.

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