GLI ULTIMI SATRAPI DELLA REPUBBLICA
Nursultan Nazarbaev, classe 1940, era primo segretario del partito comunista kazako da meno di due anni quando crollò l’Urss. Era il tempo in cui tutta Mosca veniva sedotta da un testo di Aleksandr Solgenitsyn, Come riorganizzare la Russia, in cui era teorizzata la necessità di liberarsi del gravame delle Repubbliche asiatiche. Però Nazarbaev fu leale fino all’ultimo all’Urss e a Gorbaciov, e alla testa di un paese grande all’incirca come l’Europa e con soli 16 milioni di abitanti, dichiarò l’indipendenza e si proclamò primo presidente del Kazakhstan solo quando Boris Eltsin sancì la morte dell’impero.
Complice l’immensa ricchezza energetica (e le ciclopiche tangenti connesse) che fa gola un po’ a tutto il mondo, Nazarbaev è sempre stato definito un «dittatore illuminato» o anche «il meglio del mazzo», intendendo il gruppo dei quattro satrapi che guidano con pugno di ferro, repressioni sanguinose, corruzione familistica e caricaturale culto della personalità i quattro stati dell’Asia centrale nati sulle rovine dell’Urss. Escluso il Kirgizistan, che da anni si dibatte tra golpe, guerre civili e un problematico passaggio verso la democrazia.
Negli oltre vent’anni del suo sultanato, Nazarbaev ha fatto di necessità virtù. Il suo motto è: «Prima l’economia, poi la democrazia ». Ha fatto costruire una faraonica capitale, Astana, nel cuore della steppa a cui, si dice, medita di dare il suo nome. Lì c’è il palazzo Ak Orda, simile alla Casa Bianca, ma molto più grande; una piramide che s’illumina con quattro colori diversi; e la moschea Nur Astana, pensata per cinquemila fedeli. Manifesti con il volto del leader sono ovunque. Un dipinto all’ingresso del palazzo Ak Orda ritrae il presidente circondato da una folla in festa. Si chiama «Il sogno», e tra chi lo applaude si intravede il volto di Nicolas Sarkozy, quello di Berlusconi, poi Putin, Medvedev e Eltsin.
I suoi deputati lo adorano e continuano a proporre leggi per attribuirgli cariche che lui rifiuta. Alle ultime elezioni ha preso oltre il 95 per cento dei voti. Questo sebbene circa un anno e mezzo fa a Zhanaozen la polizia aprì il fuoco contro gli operai del settore petrolifero, licenziati sette mesi prima: 16 morti, ufficialmente. E sebbene lo scorso anno sia stato tutto segnato da repressioni contro quelli che cercavano spiegazioni alla tragedia di Zhanaozen, finché i media più audaci sono stati dichiarati «estremisti» e la loro attività sospesa.
Ma che volete che sia, di fronte alle gesta di Gurbanguly Berdymukhammedov (1957), leader indiscusso del Turkmenistan. Il culto della personalità che è riuscito a instaurare sfiora la follia e può competere solo con quello del suo predecessore Saparmurat Nijazov, che aveva cambiato i nomi dei giorni e dei mesi con quelli dei suoi familiari. Con la rielezione del suo erede è iniziata l’era «della suprema felicità dello Stato stabile»; all’inaugurazione di un ospedale nella capitale, Ashgabat, lui, che faceva il dentista, per la gioia del paziente ha deciso di operare in prima persona, al posto del chirurgo. Tanto, chi oserebbe dire nulla, vista la repressione ottusa del regime.
A ogni Stato il suo satrapo. E si fa proprio fatica a dire chi sia il peggiore. L’uzbeko Islam Karimov (1938) è un dittatore riservato. Eppure il suo regime è tutto all’insegna di paranoia, familismo, corruzione e, se è il caso, tortura crudele. Si era pensato che volesse lasciare il suo posto all’amata figlia-ambasciatrice-cantante Gulnara, ma un suo ex collaboratore fuggito in Russia ha raccontato che questo pensiero è sfumato: mai la donna potrebbe avere astuzia, durezza e ferocia sufficiente per salvare la pelle. A parte gli stretti alleati, che per quanto riccamente oliati, perseguibili e ricattabili, non sono mai abbastanza affidabili, il pallino di Karimov è il terrore dell’Islam radicale: solo accennare a problemi religiosi può causare arresti e maltrattamenti. Fare politica attraverso movimenti islamisti scatena persecuzione sicura e porta alla prigione di Jaslyk, dove si sarebbero eseguite atroci torture. Si parla di prigionieri immersi in olio o acqua bollente fino alla morte. Ma siccome sono paesi segreti e sconosciuti, dove tutto si consuma lontano da occhi indiscreti, solo gli uzbeki sanno la verità. E loro sanno bene che cosa accadde a Andijon nel maggio 2005, quando le forze di sicurezza repressero nel sangue una manifestazione per la liberazione di alcuni uomini d’affari accusati di far parte di un movimento islamico. Furono massacrati a centinaia, c’è chi dice a migliaia. Così da Tashkent a Samarcanda a Bukhara, i centri del potere sono circondati da strade in cemento a cinque o sei corsie, antibarricata. Molto adatte ai blindati. Di fronte a tali titani, impallidisce il tagiko Emomalii Rahmon (1952). Mediocre satrapo che regna dal ’92 senza grandezza neppure nel male. Solo un “normale” e crescente autoritarismo, culto della personalità, un Paese strangolato dalla corruzione e una gestione dell’economia a esclusivo vantaggio suo e dei suoi accoliti. La tortura è molto diffusa nelle carceri tagike, ma anche questo è “normale”.
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