Gli F35 e il dilemma dei sindacati tra posti di lavoro e lotte pacifiste

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CAMERI (Novara) — Dentro i 16 miliardi di tagli veri, presunti o in bilico agli F35 ci sono anche i 2.200 euro al mese dell’operaio Bruno Castellani, che lavora in Alenia da vent’anni, è iscritto alla Fiom, ogni anno fa la marcia della pace, ma tiene anche famiglia numerosa e monoreddito, il suo. «Certo che se ci mettessimo a costruire mongolfiere sarei più contento, chi non lo sarebbe. Ma non è possibile riconvertire la produzione, e insomma, si metta nei miei panni».
Almeno proviamoci. Martedì mattina, ai cancelli della base di Cameri, il giorno dopo l’ennesima crisi di nervi generale sulla sorte dei famosi caccia bombardieri «americani» acquistati, forse, dall’Italia. Oddio, cancelli. Piuttosto, una linga fila di inferriate, filo spinato e torrette a protezione dei dieci capannoni nati negli ultimi tre anni sui prati che costeggiano il sito del vecchio aeroporto militare un tempo intitolato a Natale e Silvio Palli, eroi della prima guerra mondiale. Rumore continuo di martelli pneumatici che picchiano per l’allargamento di un hangar, bulldozer che spianano terreno. Il materiale per l’avvio della produzione continua ad arrivare ogni giorno e viene assemblato in tempo reale. Mentre la storia degli F35 ristagna, lo stabilimento che dovrà assemblarli sembra un formicaio.
«Alla fine li faremo, qui ne siamo convinti» dice Bruno. «Quando il progetto venne approvato a Roma erano tutti d’accordo. E sapevano bene che di trattava di aerei da guerra, mica giocattoli. Noi abbiamo sempre fatto questo». Anche lui, come tutti gli altri, è in trasferta. Dalla sua casa di Torino a questa distesa di campi irrigati che lambisce il Ticino. Un’ora e mezza ad andare, altrettanto a tornare.
L’aeroporto di Cameri ha smesso da molto tempo di ospitare reparti di volo. Oggi è la fabbrica degli F35 americani, che proprio per questo hanno l’hanno voluta all’interno di una base militare, con tutta la segretezza che ne consegue, compresa per statuto l’assenza di una rappresentanza sindacale. Il sito è un gigantesco alveare ancora vuoto, in attesa di essere riempito dalla commessa che per molti sta diventando sinonimo di spreco, o di soldi spesi male. I nuovi assunti sono trenta. Gli altri settanta, operai e ingegneri dell’Alenia di Caselle sono in appoggio, pendolari o alloggiati all’interno della base, che dista una quindicina di chilometri dal paese. Un avamposto. Il grosso della forza lavoro arriverà solo quando tutto sarà chiaro, chissà quando.
Nella disfida dei numeri che fa da supporto alla contesa ideologica l’unica bussola è un monumentale schedario appoggiato su una scrivania all’ufficio delle attività produttive primo piano del municipio. L’impiegata lo solleva con una certa fatica per riporlo nell’armadio. Sono 2.300 richieste di assunzione alla base militare arrivate da tutto la regione, e oltre. «Non di nostra competenza» dice l’impiegata. «Noi possiamo solo smistarle».
Prima il Tav in Val Susa, poi gli F35 nel novarese. Il Piemonte sembra la palestra del confronto tra lavoro «buono» e lavoro «cattivo», con entrambi gli aggettivi sottoposti a rigorose virgolette. Bruno perde la pazienza. «Questa distinzione non la capisco. Specialmente di questi tempi». Emilio Lonati, ex metalmeccanico, segretario della Cisl del Piemonte orientale, rappresenta al meglio il dilemma dei sindacati territoriali sugli F35. Lui, che nella vita di tutti i giorni è anche perito all’Agusta, pensa tutto il male possibile della svolta produttiva che ha portato la nostra aeronautica verso l’America.
Ma ogni giorno bussano alla sua porta persone che chiedono «prospettive occupazionali», un modo per definire la disperazione in sindacalese. E quindi la consueta propaganda sui posti di lavoro che verranno lo fa infuriare, perché dai 12.000 del 2007 si è passati chissà come a una stima realistica che si aggira su 2.000 nuove assunzioni, contando l’indotto. «Certo, anche così rappresentano una possibilità unica e irripetibile. Sono posti preziosi e utili per un’area in crisi come il Piemonte orientale».
Vista dalla prospettiva di Cameri, la contesa sugli F35 è un vicolo cieco dove le sacrosante questioni di principio fanno a pugni con lo stato di necessità. Neppure i duri della Fiom ce la fanno a trovare un punto d’equilibrio. Come tutte le aziende della produzione militare, l’Alenia di Caselle ha un tasso di sindacalizzazione non elevato. Solo il 35 per cento dei tremila dipendenti possiede una tessera, e 1.200di queste sono dei metalmeccanici Cgil, che nel resto d’Italia fanno fuoco e fiamme contro l’acquisto degli F35. Anche qui, ma con notevoli arrampicate sugli specchi, ammesse con molta sincerità. Antonio Fraggiacomo, tosto delegato Fiom dell’Alenia, considera la scelta degli F35 l’ennesima occasione perduta dell’industria aeronautica italiana, in questa occasione ridotta a manovalanza degli odiati yankee. Perfetto, e se poi non li fanno, quei caccia americani? Fraggiacomo allarga le braccia. «Senza commesse sicure rischiamo di chiudere». Bruno Castellani scuote la testa. «Poi lo racconti tu a mia moglie»? I vicoli ciechi hanno questo di brutto, che non se ne esce.
Marco Imarisio


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