GENERALI Quando i carri armati interrompono la democrazia

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Insomma: un golpe. O no?
La definizione dei recenti fatti d’Egitto divide gli animi. Coloro che rifiutano il termine “colpo di Stato”, carico di senso negativo, esaltano la mobilitazione di massa contro il presidente Morsi su cui le Forze armate hanno poggiato il loro intervento. Senza peraltro sottilizzare sulla credibilità dei numeri – decine di milioni di manifestanti – evocati dalla galassia che non ne poteva più del fallimentare esperimento di governo dei Fratelli musulmani. Cifre peraltro riprese tali e quali da gran parte dei media occidentali, anche se parrebbero urtare contro il buon senso e violare le leggi della fisica.
Ma non sottilizziamo: stando a tale scuola di pensiero, se tecnicamente di golpe si è trattato, politicamente è stato riscattato dal consenso del “popolo” – almeno finché un altro “popolo”, quello dei Fratelli, non si è manifestato, certo non in decine di milioni. Se proprio non vogliamo omettere il sostantivo “colpo”, qualifichiamolo almeno con un aggettivo che possa riscattarne la reputazione – “rivoluzionario” o “democratico”. Anche a costo di confezionare un ossimoro. E non formalizziamoci troppo sull’entusiasmo delle petrodittature del Golfo per il “golpe democratico”, certificato dagli annunci della monarchia saudita e satelliti di una pioggia di petrodollari sul Cairo onde evitare che il “loro” Egitto finisca nel baratro.
La disputa semantica intorno all’intervento dei militari per dirimere – ad oggi aggravandolo – il caos politico egiziano non ha nulla di accademico. È strategica. Il nome della cosa implica una politica. E viceversa, la politica è interessata a determinare il nome della cosa per legittimare se stessa. Più in concreto: se il generale Abdel Fattah al-Sisi
fosse battezzato golpista dagli Stati Uniti – suo paese di formazione professionale – dovrebbe rinunciare al miliardo e mezzo di dollari che dal 1987 Washington trasferisce ogni anno alle Forze armate egiziane a garanzia della sicurezza di Israele e a beneficio della propria industria degli armamenti.
Sulla sponda opposta, i Fratelli musulmani gridano al golpe – inqilab in arabo – per legittimare la resistenza al nuovo (vecchio) regime in nome della rivoluzione (thawra) del 25 gennaio. E rianimare i loro sostenitori, illusi di poter reggere il paese a piacimento avendo vinto tutte le elezioni del dopo-Mubarak. Soprattutto, vogliono salvare reputazione e prospettive della confraternita che, inebriata dal profumo del potere, in un solo anno alla guida di un paese ingovernabile ha rischiato di giocarsi il patrimonio accumulato in otto decenni di vita parallela all’ombra dei regimi vigenti.
Tra i due poteri storici del moderno Egitto – il fucile dei soldati e il Corano della Fratellanza, talvolta ambigui alleati, talaltra nemici per la pelle – ecco la vasta e variopinta piazza che nelle ultime settimane si è mobilitata contro il malgoverno e le pulsioni autoritarie del presidente Morsi. Estesa dai comunisti ai nazionalisti, dai copti agli sciiti passando per tutti i colori dell’iride sociopolitico – non esclusi diversi islamisti delusi da Morsi – e con l’ambigua partecipazione dei salafiti. Una costellazione priva di leader e di progetto politico, cementata solo dall’avversione per i Fratelli, frustrata dalle ripetute sconfitte elettorali e consapevole nelle sue frange più laiche e modernizzatrici della difficoltà/impossibilità di prevalere alle urne. Quella piazza ha dapprima invocato, poi salutato con gioia la discesa in campo dei militari. E si è ben guardata dal chiamarla inqilab, perché avrebbe così sigillato la fine della thawra, vera o immaginaria che fosse.
Ma non finisce qui. Pochi giorni dopo il golpe/non golpe di al-Sisi, il movimento Tamarrud (Ribellione) – giovani rivoluzionari della prima (e ormai della seconda) ora – condannava come dittatoriale la road map verso il ritorno alla ritualità democratica promessa dal governo ad interim impiantato dai militari con il golpe che non possono/vogliono chiamare tale. Se non siamo alla denuncia dell’inqilab, poco ci manca. E subito dopo il vescovo copto cattolico di Minya, Botros Fahim Awad Hanna, osservava che la costituzione provvisoria varata per decreto dal presidente Adly Mansour è peggiore di quella vigente sotto i Fratelli, una “presa in giro” che accoglie le istanze salafite e nega alcuni diritti fondamentali già garantiti a cristiani ed ebrei.
Che cosa trarne? Forse che per gli attori della partita il nome conta più della cosa. Più che le battaglie di strada o gli intrighi di corridoio, è la capacità di imporre il proprio marchio – golpe versus rivoluzione o un mix di entrambi – a sigillare la vittoria degli uni o degli altri. Una guerra di propaganda senza esclusione di menzogne, comprensibile per chi si gioca la pelle sul terreno. A chi volesse solo capire e provare a spiegare ciò che ha capito, l’arduo compito di scernere il grano dal loglio. Fatica infinita, ma appassionante.


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