by Sergio Segio | 30 Luglio 2013 7:09
ROMA — Se con la crisi finanziaria un’altra cortina è calata sull’Europa e la divide in due, centro e periferia, allora l’Italia da che parte sta? Abituati a lavorare sui dati di bilancio o del Pil, è probabile che i tecnocrati del Fondo monetario internazionale non avessero messo in conto questioni del genere. Vanno dunque scusati se, curiosamente, una settimana fa sono rimasti a lungo in silenzio.
In teoria non avrebbero dovuto: il 23 luglio il consiglio dell’Fmi aveva approvato il rapporto annuale dello staff sull’area euro, che sembrava pronto per la pubblicazione; eppure, a causa di un passaggio a vuoto del tutto irrituale, il mondo non ha potuto leggere quel testo per altri due giorni. Stavolta però le lungaggini della burocrazia non c’entrano. Secondo vari osservatori, dentro palazzo del Fmi in quelle 48 ore si è consumata una disputa di sapore inedito attorno a una domanda più politica che tecnica: è corretto definire certi paesi «periferia», magari inserendo nel novero l’Italia e la Spagna, con tutta la loro storia e il loro peso in Europa e per l’economia globale?
A leggerlo così com’è uscito, il rapporto sull’area euro conclude che sì, è giusto. L’Italia, la Spagna e gli altri sono in effetti «periphery». Il documento non lesina l’uso di quel termine un po’ sprezzante (secondo alcuni) quando parla delle economie europee più colpite dalla recessione. In certi passaggi l’Fmi formalizza persino la sua definizione, precisando i nuovi confini d’Europa nelle didascalie di qualche grafico. Secondo il rapporto del Fondo, per esempio a pagina 5, «periferia» sono Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo e Spagna. Invece «core», cioè centro o nucleo duro dell’area euro, sono Austria, Francia, Germania, Olanda e Belgio.
Non tutti hanno apprezzato. Al contrario: la settimana scorsa nel palazzo all’angolo fra Pennsylvania Avenue e la 19esima strada, sede dell’Fmi a Washington, la partita diplomatica su chi e cosa ha senso derubricare al rango di «periferia» è durata vari giorni e ha creato più di un’irritazione nella diplomazia finanziaria. Tutto è iniziato questo mese con la riunione dei direttori esecutivi del Fmi che rappresentano le «circoscrizioni», ossia i paesi, dell’Unione europea. L’Italia per esempio parla (e vota) nel consiglio dell’Fmi per se stessa e anche in nome di altri Stati fra cui la Grecia, il Portogallo e Malta. Proprio nel coordinamento fra europei alla vigilia della pubblicazione del rapporto che li riguardava, vari direttori esecutivi hanno sollevato il problema geopolitico: non esiste un’Europa di seconda classe, è stato detto; e non sono chiare le basi economiche, storiche o culturali per decretare che certi paesi sono «periferia» mentre altri sono il «centro». A maggior ragione non sarebbe corretto farlo per quanto riguarda l’Italia, paese fondatore della Comu-
nità europea e tuttora parte del G7 delle grandi economie industriali.
Non che classificazioni del genere siano del tutto inedite. Prima ancora che partisse l’euro, nel 1997, la stampa e buona parte della classe politica in Germania avevano già iniziato a definire «Club Med» tutto il Sud Europa, l’area che molti tedeschi avrebbero preferito escludere dalla moneta unica. A conferma che qui la geografia conta poco, all’epoca ne faceva parte anche una nazione affacciata sull’Atlantico come il Portogallo. Poi le formule si sono fatte più sprezzanti. Nel 2008 la crisi dell’euro fu anticipata da quel nomignolo «Pigs» che nella lingua di Shakespeare significa ovviamente «maiali» ma, secondo i giornali di Londra, era la sigla di un gruppo di paesi deboli: Portogallo, Italia, Grecia, Spagna.
Stavolta però al Fondo monetario la questione è diventata più seria. In gioco non erano più solo dei nomignoli informali: era il più importante organismo finanziario internazionale che formalizzava ancora una volta quella linea di faglia. Come se l’Europa fosse divisa davvero da una nuova cortina di ferro, questa volta misurata dai tassi d’interesse. Andrea Montanino, il direttore inviato dal Tesoro, ha insistito su questo punto e altrettanto hanno fatto sia il direttore francese Hervé Jodon de Villeroche e il suo collega tedesco Hubert Temmeyer. Alla fine tutti insieme hanno dato mandato all’olandese Menno Snel di presentare le rimostranze di tutta la Ue al consiglio d’amministrazione dell’Fmi.
L’Europa conta per più del 30% nel board del Fondo e all’inizio sembrava prevalesse. Il direttore generale, la francese Christine Lagarde, era d’accordo. Il brasiliano Paulo Nogueira Batista si è persino spinto a dire che l’Italia non può essere periferica, «perché in Italia abita il Papa». Il board dunque ha suggerito allo staff tecnico dell’Fmi, il responsabile indipendente del rapporto, di evitare la separazione dei paesi in ranghi diversi. Detto fatto: «Il costo dei prestiti alle imprese resta alto nella periferia», si legge nel comunicato curato dai due responsabili del dipartimento europeo a Washington: l’iraniano Reza Moghadam e l’indiano Mahmood Prahan.
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