by Sergio Segio | 10 Luglio 2013 16:30
A un mese dalle ferie di agosto, i leader europei indubbiamente preferirebbero, per la prima volta in quattro anni, godersi il sole estivo senza temere che nella zona euro si scateni l’inferno. Gli eventi dell’ultima settimana offrono qualche segno di prudente ottimismo.
Quando la settimana scorsa in Portogallo è scoppiata la crisi politica con le dimissioni del ministro delle finanze, sono bastati appena sette giorni perché le autorità portoghesi riprendessero il controllo e portassero la calma nei mercati finanziari. In Grecia, che come il Portogallo sopravvive grazie agli aiuti internazionali, i prestatori stanno trovando il modo di continuare a versare aiuti di emergenza ad Atene in cambio di riforme notoriamente incomplete.
Più in generale, l’ingresso della Croazia nell’Ue, l’annuncio dei colloqui per l’adesione della Serbia all’Ue e della Lettonia alla zona euro illustrano molto bene il fascino permanente che l’Unione europea continua ad avere. Infine, gli ultimi indici di acquisto dei manager, che quantificano le prospettive future delle aziende private, sono stati i più ottimistici dal marzo 2012 a oggi. Nella seconda metà di quest’anno l’Europa dovrebbe riuscire a tirarsi fuori dalla recessione.
Questi segnali sono incoraggianti, ma non dimostrano concretamente che la crisi sta finendo, soltanto che sta entrando in una fase diversa. I prossimi 12 mesi ci presenteranno sfide politiche, sociali e del mercato finanziario che ancora una volta metteranno alla prova le capacità dell’Europa di gestire la crisi.
Prima di tutto, qualsiasi ripresa avverrà in circostanze molto frammentarie dal punto di vista del credito. Le aziende italiane, portoghesi e spagnole, che mancano di finanziamenti accessibili, sono in svantaggio permanente rispetto alle concorrenti in Austria e in Germania. Tutto ciò esplicita la presa in giro dei vantaggi che si presumeva dovesse assicurare la valuta unica e rende impossibile per il settore privato ridurre sostanzialmente la disoccupazione di massa nell’Europa meridionale.
Al tempo stesso, la cornice concettuale del dare soldi ai colpevoli per combattere la crisi europea in cambio di lacrime e sangue, autocritiche e della promessa di varare riforme virtuose rimarrà in buona parte inalterata. Da questo punto di vista non è importante se dalle elezioni nazionali in Germania del 22 settembre salterà fuori un governo di centrodestra, di centrosinistra o una grande coalizione. Nessun partito tradizionale ha infatti il desiderio di bilanciare l’economia della zona euro utilizzando le eccedenze delle partite correnti tedesche per scongiurare la recessione economica dell’Europa meridionale.
L’ideale di unità sarà messo duramente sotto pressione nel corso delle elezioni del Parlamento europeo del prossimo maggio, che apriranno la successione a José Manuel Barroso alla presidenza della Commissione europea e a Herman Van Rompuy a quella del Consiglio europeo, il club dei leader nazionali. È da prevedersi un’impennata nel supporto ai partiti populisti, anti-establishment e anti-Ue.
Nell’immediato futuro ci sarà un clima politico glaciale per chi è favorevole ad ambiziose iniziative di integrazione, come la condivisione del debito o l’unione bancaria, compresa l’assicurazione comune sui depositi. Questi punti sono venuti a galla il mese scorso in una dichiarazione del governo olandese che dichiarava chiusa l’epoca “di una maggiore unione” in ogni settore politico. La fragilità dell’intento comune affiora anche dalle parole con le quali nelle scorse settimane il governo francese e Barroso si sono aggrediti a vicenda.
Ma ci sono altri segnali premonitori nell’aria. Per adottare quello che si va configurando come un nuovo round di aiuti finanziari per il salvataggio di altri paesi sarà indispensabile un forte spirito di impegno e di dedizione collettiva. Si prendano in considerazione i piani triennali di aiuti all’Irlanda e al Portogallo, che si concluderanno rispettivamente questo dicembre e nel giugno 2014: i leader europei avevano sperato di interromperli in tempo, dimostrando così un’impeccabile gestione della crisi. Ma la battaglia ingaggiata dall’Irlanda per uscire dalla recessione dimostra che un facile ritorno ai mercati privati del capitale non è garantito.
Per quanto riguarda il Portogallo, la crisi di governo ha messo in luce i limiti della tolleranza del mondo politico e dell’opinione pubblica nei confronti dell’austerity. Uscire dal bailout è improbabile senza ulteriori aiuti, perché l’indebitamento pubblico si avvia a superare il 130 per cento del prodotto interno lordo, perché non si intravede una crescita economica significativa e perché circa un quinto dei lavoratori è disoccupato.
Nel frattempo, sono davvero pochi gli esperti che pensano che la Grecia potrà evitare un’altra ristrutturazione del debito. A partire dal primo bailout concesso alla Grecia nel maggio 2010, le condizioni politiche nelle nazioni creditrici si sono fatte via via più ostili nei confronti degli aiuti alle nazioni debitrici. E tuttavia la pazienza delle nazioni debitrici nei confronti dell’austerity è proprio agli sgoccioli. Il sipario finale della crisi della zona euro si alzerà su questo scontro velenoso.
Traduzione di Anna Bissanti
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