Erdrich: il mio canto di vendetta

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NEW YORK — North Dakota 1988. La comunità della riserva indiana degli Ojibwe è improvvisamente scossa dalla notizia della brutale aggressione contro Geraldine, la moglie del giudice tribale Antone Coutts, stuprata da un misterioso assalitore che tenta di bruciarla viva cospargendola di benzina. Dinanzi al silenzio della donna, caduta in una profonda depressione, e alle difficoltà della polizia federale e indiana di assicurare il colpevole alla giustizia, spetterà a Joe, figlio 13enne di Geraldine, diventare in fretta un adulto per far luce sul mistero e vendicare la madre della violenza subita vicino alla Casa Tonda: il luogo sacro dove in passato gli indiani celebravano i loro antichi cerimoniali.
È la trama di La Casa Tonda, (Feltrinelli, traduzione di Vincenzo Mantovani), il 14esimo romanzo della scrittrice nativa-americana Louise Erdrich, acclamato dai critici Usa (Philip Roth l’ha definito «stupendo») e vincitore del prestigioso National Book Award. «Per moltissimi anni sono stata tormentata dal desiderio di squarciare un velo sull’enorme difficoltà di perseguire le violenze sessuali nelle riserve indiane», spiega al «Corriere» la 59enne autrice appartenente alla tribù dei Turtle Mountain Band of Chippewa di Wahpeton, Nord Dakota. «Non riuscivo, però, a trovare la maniera più adatta per raccontare la mia storia — continua Erdrich, che oggi vive in Minnesota con le sue quattro figlie, tre delle quali avute dal matrimonio con lo scrittore Michael Dorris, morto suicida nel 1997 —. Un giorno, come un dono inaspettato, questo ragazzino, Joe, ha iniziato a parlarmi, guidandomi con la sua voce per tutta la narrazione. Il libro ha preso vita così, spontaneamente».
È stato difficile calarsi nei panni di un tredicenne?
«È stata un’esperienza che ho amato moltissimo e di cui, ora che il libro è concluso, sento la mancanza. Oltre a due sorelle minori, sono cresciuta nella cittadina di Wahpeton con quattro fratelli più piccoli e ricordo ancora quanto invidiavo la loro libertà. Narrare attraverso gli occhi di Joe era essenziale perché la mia è una storia sui rapporti famigliari e su come un ragazzino sia costretto a crescere in fretta a causa del dolore e del lutto».
È difficile per il lettore non condividere la brama di rivalsa di Joe. Crede sia giusto farsi giustizia da soli?
«Sbagliato o meno che sia, per molte famiglie delle riserve la vendetta personale è l’unica possibilità di riscattarsi in un territorio dove la giustizia è un miraggio. Se neanche un uomo di legge come il marito di Geraldine può punire il colpevole dello stupro contro la donna che ama, mi chiedo dove sia la giustizia per noi nativi. Quando ho scritto questo libro, volevo che i lettori si rendessero conto di cosa significhi vivere portandosi addosso un tale fardello di iniquità e discriminazioni».
È per questo che, nel libro, il luogo dove il crimine avviene è importante quanto l’identità di chi lo commette?
«Gli imprevisti della narrazione fanno sì che il luogo dove la violenza è stata perpetrata, sacro per i nativi, non sia un mero dettaglio, soprattutto se si considera la suddivisione delle riserve in molteplici territori, ognuno dei quali appartiene a una giurisdizione diversa. Nel caso di Geraldine, ad esempio, lei stessa non sa in quale precisa area della riserva sia avvenuto lo stupro e quindi non si riesce a individuare l’autorità territorialmente competente per la caccia al colpevole. È un sistema legale arbitrario, il risultato di una lunga storia di soprusi del Governo degli Stati Uniti verso i suoi nativi».
L’86 per cento degli uomini che violentano donne indiane sono bianchi. È questa la ragione per cui lo è anche lo stupratore del suo libro?
«Conosco queste statistiche. Offrono un quadro molto drammatico della situazione, specie se si pensa che le corti tribali oggi possono perseguire soltanto i criminali nativi. Un’ingiustizia cui si sarebbe potuto rimediare nel 2012 con l’estensione alle donne indiane delle tutele previste dal Violence Against Women Act. Quella norma avrebbe dato alle riserve il potere di punire i delinquenti indipendentemente dalla loro etnia, ma i repubblicani hanno bocciato la proposta in commissione giustizia al Senato. Non dimentichiamoci però dei tanti indiani che commettono violenze contro le loro donne: un’altra dura verità che molti rifiutano di conoscere».
Quanto c’è di autobiografico in questo suo ultimo romanzo?
«Le decisioni narrative di uno scrittore sono imposte dalla vita. Nel mio caso, sono cresciuta nel Nord Dakota circondata da nativi della tribù Ojibwe. Sono andata via a 18 anni ma vi torno spesso perché i miei genitori e parenti vivono ancora lì. È naturale quindi che i miei personaggi traggano ispirazione dalla gente di quella terra. Il Nord Dakota è la mia Yoknapatawpha, ossia la contea immaginaria del sud degli Usa dove William Faulkner ambientò molti dei suoi romanzi e racconti».
Oltre a Faulkner, quali altri scrittori l’hanno influenzata?
«Ogni autore che leggo lascia un’impronta indelebile dentro di me. Tra i grandi del passato, amo molto Virginia Woolf, Isaac Bashevis Singer, Bohumil Hrabal, Walter Tevis e Angela Carter. Tra i contemporanei, mi piacciono Annie Proulx e W.G. Sebald, Toni Morrison, Don DeLillo, Philip Roth, Anita Desai e Amitav Ghosh mentre tra i giovani preferisco Karen Russell, Wells Tower, Phillip Meyer, Nicole Krauss e Dave Eggers».
Quali autori consiglierebbe di leggere a un aspirante scrittore?
«Senza dubbio Anton Cecov, Isak Dinesen (pseudonimo di Karen Blixen, ndr), Conrad, Angela Carter, H.P. Lovecraft, Alice Munro, Annie Proulx, Lorrie Moore, W.G. Sebald e Sherman Alexie. Ma anche scrittori nativi di grande talento, seppure poco conosciuti al grande pubblico. Penso a Orlando White, Gordon Henry Jr. e Joy Harjo, una delle mie poetesse preferite. E come non menzionare le mie sorelle più piccole: Heidi, poetessa di talento, e Lise, autrice di libri per bambini».
Quanto le sue origini hanno influito sulla sua carriera?
«A plasmare la mia vita e il mio percorso di scrittrice è stata mia madre, Rita Gourneau, una donna Ojibwe, molto carismatica, dalla vivida sensibilità artistica. Insegnava con mio padre nella scuola della riserva ma allo stesso tempo si è sempre dedicata anima e corpo ai suoi 7 figli. Ha sempre creduto in me: è stata lei che mi ha spronato ad andare al Dartmouth College, nel New Hampshire, e che mi ha insegnato a essere orgogliosa di appartenere alla nostra tribù Chippewa».
E suo padre?
«È stato la mia più grande influenza letteraria. Ha sempre amato leggere, dissertare di libri e scrivere. Ci incoraggiava a imparare a memoria i poemi di Robert Frost, Alfred Tennyson, Robert Service e Henry Longfellow, ricompensandoci con una monetina per ogni poesia recitata correttamente. È a lui che devo il mio amore per lo studio e la letteratura».
Suo nonno materno, per anni, è stato un importante capo tribù dei Turtle Mountain Band of Chippewa.
«Mio nonno Patrick Gourneau era un uomo brillante, temerario, che non ha esitato a comparire davanti al Congresso di Washington per difendere la sua gente. Amava intrattenere, raccontando storie, e possedeva un grande senso dell’umorismo. Nella riserva si prendeva anche cura di un giardino diventato poi il nostro fiore all’occhiello e produceva vino. Amava vestirsi alla moda, tranne quella volta in cui decise di indossare un cappello di feltro di plastica rossa. Un’eccentricità che presto divenne il suo tradizionale abbigliamento durante i powwow, le adunate ufficiali delle tribù indiane».
Quali sono i pregiudizi più diffusi sui nativi-americani?
«Credo che vi siano parecchi stereotipi su noi indiani, proprio come sugli italiani o gli americani in generale. I pregiudizi nascono sempre dalla scarsa conoscenza degli altri. Questa è del resto una delle ragioni per cui la letteratura esiste: aiutarci a penetrare nelle anime altrui e riconoscervi somiglianze e verità condivise».


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Dalle passioni giovanili (più la musica che il cinema) all’età  adulta in cui ha capito perché ama le storie che parlano di gente comune. Alla vigilia del suo ottantunesimo compleanno, uno dei più grandi registi viventi si racconta. E racconta di quel suo modo di stare al mondo: “Non ho mai saputo in quale direzione mi sarei diretto. Mi ci sono semplicemente trovato”

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