E Shalabayeva disse: voglio chiarire

by Sergio Segio | 26 Luglio 2013 6:29

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ROMA — Alma Shalabayeva era pronta a raccontare la verità ai pubblici ministeri. L’istanza presentata il 31 maggio scorso, mentre era già pronto il jet per il rimpatrio, dai suoi avvocati Riccardo e Federico Olivo era esplicita, mirava a bloccare la procedura senza mettere in pericolo la signora e la sua bambina. Ma non fu accolta. Inizialmente i magistrati sospesero la procedura di rilascio del nulla osta all’espulsione. Ma due ore dopo, di fronte alle insistenze della polizia sulla falsità dei documenti, decisero di firmare il via libera alla partenza delle due donne. E così si autorizzò la loro «consegna» alle autorità kazake.

Dodici giorni dopo la decisione del governo di revocare il provvedimento, troppi punti di questa drammatica storia rimangono oscuri. Troppi tasselli non sono ancora tornati a posto. Perché si è accertato che i vertici del Viminale sapevano che cosa stava accadendo, ma restano non chiarite le responsabilità politiche, dunque il ruolo effettivo avuto dal ministro dell’Interno Angelino Alfano e da quello degli Esteri Emma Bonino. Entrambi assicurano di essere stati informati soltanto dopo l’arrivo ad Astana delle due donne che si trattava della moglie e della figlia del dissidente Mukhtar Ablyazov. Ma questa versione continua a mostrare lacune gravi, soprattutto nella sequenza dei fatti. Anche perché non è stato risposto a due interrogativi che costituiscono il perno di questa vicenda.

Il primo riguarda la visita in questura dell’ambasciatore Andrian Yelemessov: chi gli disse di rivolgersi a San Vitale, così accreditando la possibilità che la sua richiesta di fare irruzione nel villino di Casal Palocco fosse accolta? Il secondo attiene all’iter seguito: perché si decise di agire così in fretta, senza dare il tempo alla signora di chiarire la propria posizione? Il dubbio che trova ulteriori conferme proprio grazie alla lettura dell’istanza che i suoi legali depositarono in procura alle 15 del 31 maggio.

La nostra assistita, evidenziarono, «è intenzionata a rilasciare immediate e importanti dichiarazioni spontanee circa la propria posizione personale e in particolare circa la genuinità del documento la cui presunta falsità genera tanto la presente indagine quanto il provvedimento di rimpatrio». Il fascicolo che la riguardava non era uguale alle pratiche seguite ogni giorno, perché riguardava comunque la moglie di quello che era stato indicato come «un pericoloso latitante». E dunque un eventuale interrogatorio avrebbe potuto aiutare anche riguardo alla sorte di suo marito. Invece si decise che non fosse utile. O forse si ritenne utile accontentare le richieste dei diplomatici kazaki che insistevano per ottenere subito il suo ritorno in patria. Cosa che infatti avvenne.

Qualche giorno fa gli avvocati avevano chiesto che il provvedimento di espulsione fosse annullato e non solo revocato come invece aveva fatto il governo. Ieri il giudice di pace ha respinto l’istanza. «È venuta meno la materia del contendere», ha stabilito. Ma ha condannato la stessa prefettura a pagare le spese processuali. «La dimostrazione — sostengono i legali — che la procedura era illegittima».

Fiorenza Sarzanini

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