E l’Italia torna nel mirino dei mercati “Lavoro supertassato, altro che Iva e Imu”

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SE INVESTE in titoli di Stato o nel mattone pagherà appena il 12,5% di prelievo sui redditi da Btp e magari gli verrà anche tolta o ridotta qualunque tassa sulla casa. In un paese che punisce al contrario come un carabiniere di Pinocchio, perseguire la rendita e l’inerzia del denaro ormai ha perfettamente senso; il rischio, il lavoro e la crescita sono invece ormai scelte quasi irrazionali. Poco importa che in Italia le imposte sugli immobili, al 2% del totale delle entrate, siano già oggi (a pieno regime Imu) appena metà della media dei paesi avanzati.
Per fortuna l’Italia è ancora piena di persone così illogiche da non cedere alle sirene di un fisco distorto, ma neanche loro possono rimuovere la realtà descritta ieri da Standard & Poor’s. Negli ultimi dieci anni la crescita del paese è stata, onore ai decimali, meno 0,04 per cento. Da quando la crisi finanziaria ha colpito, il Prodotto lordo è crollato dell’8 per cento e continua a scendere a ritmo sostenuto. Su questo sfondo, vista da Londra, da Bruxelles, da Washington o da Francoforte, la discussione italiana sull’Imu o sull’Iva appaiono sempre di più un sofisticato esercizio nell’irrilevanza economica.
Il sistema erode ogni giorno di più i suoi fermenti di compe-titività, al punto che gli investimenti nel 2012 sono giù dell’8 per cento e anche l’export quest’anno ha iniziato a scendere (-0,3 per cento, secondo Hsbc); nel frattempo, S&P, le banche si stanno ormai dimostrando incapaci di generare il credito necessario perché le imprese funzionino. Malgrado i tassi quasi zero della Banca centrale europea, il costo reale di ciascun
prestito è ormai ben più alto di prima che il sipario del debito si strappasse nel 2008. Questa è la ragione di fondo del rischio di sostenibilità che emerge per i debiti pubblici e privati: Haver Analytics, un centro studi di New York, stima che solo negli ultimi nove mesi del 2012 il debito cumulato di tutti i soggetti in Italia (famiglie, imprese, Stato e società finanziarie) sia salito del 15% del Pil. Più l’economia perde capacità di competere nel mondo e slitta verso il basso, più il peso relativo di tutti i debiti – non solo quello pubblico – aumenta.
Intanto il sistema politico investe tempo e energia sul taglio dell’Imu o il rinvio sull’aumento dell’Iva, come se davvero da questo dipendesse la ripresa. Enrico Letta sa bene che non è così e ieri lo ha ricordato, sottolineando che l’Italia resta un “sorvegliato speciale”. Ma lui per primo sa quanto sia duro imprimere un senso di marcia al paese, dopo che Silvio Berlusconi ha giocato la sua ultima carta su un altro premio alle rendite immobiliari e una parte del suo stesso partito punta più su un rilancio dei consumi che della produttività. La decisione di Standard & Poor’s adesso non potrà che riportare tensioni, spinte centrifughe e paralisi decisionale nella maggioranza.
Del resto proprio questo è uno dei fattori che Standard & Poor’s ha valutato con più attenzione negli ultimi mesi. I responsabili dell’agenzia di rating sono stati spesso in Italia negli ultimi mesi. A marzo, quando l’elezione di un presidente della Repubblica e la nascita del governo sembravano fuori portata, S&P è stata a un passo dal declassamento del-l’Italia. La decisione era praticamente pronta. Poi Giorgio Napolitano ha dato la sua disponibilità a un rinnovo del mandato al Colle e il governo Letta ha iniziato a lavorare. In quelle settimane gli analisti del rating hanno sospeso il giudizio e si sono messi alla finestra, per vedere fino a che punto il nuovo esecutivo era in grado di affrontare i problemi del paese.
Quella luna di miele ora è finita. Sia S&P, che il Fondo monetario internazionale, che la stessa Commissione europea ciascuno con le sue contraddizioni – stanno dando tutti all’Italia lo stesso messaggio: non vanno sostenuti i consumi, un (costoso) cucchiaino di zucchero all’economia, ma rafforzati i muscoli. Si può criticare certo il messaggero: Standard & Poor’s sottovalutò a lungo, talvolta in malafede, la bolla immobiliare e creditizia americana; in certe fasi, la scelta di tempo dei suoi interventi ha creato sui mercati un panico evitabile. Ma neanche questo autorizza gli italiani a eludere il messaggio. L’evidenza dei numeri, messa in risalto da S&P, mostra che nel paese si è generato in questi anni il più ampio ritardo di produttività nell’area euro. Il costo di ciascuna ora di lavoro in Italia, in proporzione al valore prodotto, è il più alto della zona euro: si spiega così, con questa caduta della produttività il paradosso di un paese con costi troppo alti, ma salari che a volte non permettono di arrivare alla fine del mese.


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