DE SENECTUTE

by Sergio Segio | 1 Luglio 2013 6:58

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Philip Roth ha compiuto qualche tempo fa — esattamente il 19 marzo scorso — gli ottant’anni. Gli ottant’anni sono diventati da poco una tappa miliare nella storia (anagrafica e no) dell’uomo moderno. Dei grandi scrittori e intellettuali italiani di tutti i tempi — Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Ariosto, Bruno, Galilei, Vico, Foscolo, Leopardi, Manzoni — nessuno ha mai raggiunto gli ottanta, se si esclude Manzoni, e molti ne sono rimasti lontani o lontanissimi (anche perché qualcuno di loro, perché gli fosse impedito di andare più avanti, fu accortamente bruciato). Oggi gli ottanta si configurano come un passaggio singolare, di nuova e diversa natura rispetto al passato. Potremmo dire: gli ottanta chiudono la vecchiaia, la quale del resto inizia anch’essa da molto addietro, da quando, addirittura, si passa dalla favolosa adolescenza alla cosiddetta giovinezza, e aprono una nuova fase in cui, invece di tirare i remi in barca, li si riaffonda risolutamente nella corrente circostante, all’unico scopo di contrastarla.
Norberto Bobbio ha scritto: «La vecchiaia diventa il momento in cui hai piena consapevolezza che il cammino non è compiuto, ma non hai più il tempo di compierlo, e devi rinunciare a raggiungere l’ultima tappa» (De senectute, 1994). Sì, è vero, il venerabile Maestro ha ragione, ma con una correzione: l’ultima tappa non si può raggiungere, ma allora, da quel momento che gli ottanta simbolicamente segnano, non ce ne importa più niente. Fino agli ottanta si cerca, con la parola e con le opere, di cambiare il mondo. Raggiunto quel traguardo, si capisce che nulla può essere cambiato: e si è più liberi. Anche Roth ha una sua risposta su questo, ma ci tornerò più avanti.
Ora facciamo invece un passo indietro. È uscita, anch’essa in questo periodo, presso Einaudi (pura combinazione? coincidenza ricercata e voluta?, l’Autobiografia di un romanziere di Philip Roth, con il titolo, essenziale quant’altri mai, di I fatti traduzione di V. Mantovani). Il libro risale anch’esso più indietro nel tempo, precisamente al 1988: quando l’Autore, ovviamente, ne aveva molti di meno, e cioè cinquantacinque; ed era in prossimità, senza averla però del tutto incontrata, della fama universale che sarebbe seguita.
Attiro l’attenzione su questo libro, per l’occasione reverenziale che sto cercando di presentare, per tre motivi. Il più importante è evidente, ma per i distratti va comunque segnalato. Philip Roth è il grande maestro dell’intreccio tra autobiografia e finzione, il quale è a sua volta uno degli architravi portanti del modo moderno di raccontare storie.
I fatti costituiscono però un rovesciamento delle procedure abitualmente adottate da Roth: qui non è l’autobiografia che serve la finzione; ma la finzione serve l’autobiografia. Qual è l’effetto? Roth ne discute esplicitamente in corso d’opera: il libro si apre infatti con una lettera dell’Autore a Zuckerman,
in altri libri suo eminente portavoce e alter ego; e si chiude con una lettera di Zuckerman all’Autore, in cui vengono valutati molto criticamente i risultati raggiunti in questo libro, in cui la materia, come dicevo, viene esposta in maniera insolitamente retroversa. Difficile non essere d’accordo con Zuckerman; ossia con l’Autore; ossia con Zuckerman; ossia con l’Autore…; e così via all’infinito. Ma quel che conta — sia che abbia ragione Zuckerman sia
che abbia ragione l’Autore — è che la fonte dell’arte in ambedue i casi sta nella memoria e nel vissuto.
«Madame Bovary c’est moi» , Gustave Flaubert; «La casa del romanzo… non ha una sola finestra: ha un milione, o meglio un numero incalcolabile di finestre, ciascuna delle quali è stata aperta, o dev’essere ancora aperta, nella sua vasta facciata, dalla necessità della visione individuale, dalla pressione della volontà individuale”, Henry James: non a caso citati proprio nei Fatti l’uno accanto all’altro come maestri irrinunciabili.
Il secondo motivo è più tendenzioso e dunque, ovviamente, più discutibile. Coloro che quest’anno compiono ottant’anni, erano bambini all’inizio della Seconda guerra mondiale e ne sono usciti, quando dall’infanzia cominciavano, quanto mai faticosamente, ad andare verso l’adolescenza (e cioè, come dicevo, verso la vecchiaia). È una prospettiva estremamente tagliata, che può essere, ovviamente!, solo loro. Se poi, come accadde a Roth, quel passaggio avveniva nel chiuso, non segregato ma estremamente appartato di un quartiere ebraico povero come Weequahic di una città americana provinciale e periferica come Newark (ma spazi equivalenti sparsi per il mondo ce ne sono stati), il gioco dell’inclusione e dell’esclusione si sarebbe proiettato inevitabilmente su quello autobiografico: ne sarebbe divenuto, anzi, la molla principale (fino agli epici scontri con l’integralismo ebraico americano, di cui in questo libro Roth ci fornisce un’appassionata testimonianza). Infine: Roth ha salutato l’avvicinarsi del suo ottantesimo compleanno, dichiarando che non avrebbe più scritto. A motivare tale ultimativa risoluzione interviene, secondo me, più che il dato anagrafico, l’orientamento da lui assunto nei suoi ultimi libri, ognuno dei quali è un piccolo (dal punto di vista delle dimensioni) capolavoro narrativo. L’intreccio autobiografia-finzione, anche quando in taluni di questi casi permane, si è come fuso. E Roth è andato, al pari di Ulisse, a esplorare un altro nodo radicale e decisivo, quello dei rapporti fra responsabilità, destino e colpa (per quanto mi riguarda, non solo, certo, ma soprattutto Everyman, 2006; Indignazione, 2008;
L’umiliazione, 2009). Quel nodo, si sa, è, in ogni tempo e paese, senza soluzione: e alla domanda “perché?”, lo sappiamo tutti, nessuno neanche gli ottantenni, o loro meno di altri, è in grado di rispondere. E siccome neanche Roth è in grado di farlo, pensa giustamente di aver detto la sua fino in fondo, e quindi decide di tacere. È lecito, è utile, è auspicabile che ci ripensi. All’affabulazione, la forza primigenia che sta alla base di ogni racconto, e di cui Roth è padrone ma soprattutto vittima come nessun altro oggi al mondo, non si comanda.
Cosa c’è oltre quel nodo? O meglio: c’è qualcosa oltre quel nodo? Contiamo su di lei più che sulla volontà esplicita dello scrittore, affinché l’operazione sia continuata anche post senectutem, nello spazio di libertà che si sono conquistati quelli che non hanno più niente da cambiare.

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