by Sergio Segio | 30 Luglio 2013 7:16
Così la giovane e assai disparata marea di popolo che tra gennaio e febbraio 2011 costrinse il “faraone” Mubarak alla resa, grazie al decisivo interv ento delle Forze armate, non seppe prendere il potere. Ne prof ittaro no, dopo qualche esitazione, i Fratelli musulmani (ikhwan), unica vera organizzazione di massa del paese. Dapprima in precaria intesa con i militari, garanti dello Stato profondo – da noi si chiamano “poteri forti”, in Egitto lo sono davvero – poi in solitario, dunque in contrapposizione al vecchio establishment (i mubarakiani senza Mubarak) e ai dilettanti della più recente ondata rivoluzionaria (aprile-giugno 2013). I quali, incapaci di percorrere con le urne o con la forza l’ultimo, decisivo miglio dalla Piazza al Palazzo, s’affidarono ancora una volta alle baionette del glorioso esercito nazionale. Invitarono lo Stato a fare un colpo di Stato, offrendosi di legittimarlo.
Mentre nel mondo si discettava intorno al carattere di tale intervento, sul terreno si scriveva la parola fine al primo esperimento democratico nel più fiero e popoloso dei paesi arabi. Risultato provvisorio, a due anni e mezzo dallo scoppio della “primavera araba”: vince lo Stato profondo, perdono gli ikhwan, ai rivoluzionari resta l’amaro sapore dell’incompiuta e la fondata sensazione di essere stati usati e gettati dai militari oggi come dai Fratelli ieri. Mentre sulla scena egiziana si stagliano le ombre di nuovi protagonisti – i salafiti, versione ultraconservatrice dell’islam politico – e di vecchi fantasmi – i jihadisti in armi, che stanno trasformando il Sinai nell’ennesimo poligono di sperimentazione della guerra santa per il califfato. Quanto al contesto macroregionale, la controrivoluzione pilotata dalle petromonarchie del Golfo segna in Egitto un fondamentale punto a favore, riaffermando la primazia saudita e riportando l’emirato qatarino alla realtà della propria taglia. Sul piano globale, infine, conferma che il vuoto geopolitico creato nel Mediterraneo allargato dal disimpegno astrategico di Obama — quasi che l’ossessione per la Cina emancipasse Washington dalle sue responsabilità nel resto del pianeta – ha il suo prezzo. Nel caso, la totale perdita di credibilità in Egitto. Divisi su tutto, gli egiziani d’ogni fazione condividono oggi il disprezzo per gli Stati Uniti.
La logica di Obama può essere contestata. Ma è una logica. Del tutto illogico l’approccio – o non-approccio – degli europei allo tsunami arabo-mediterraneo e agli spasmi della “primavera” egiziana. Sempre in rigoroso ordine sparso. Dalle pulsioni paracoloniali di Francia e Gran Bretagna in Libia ieri e in Siria oggi, con esiti comunque disastrosi, alla neghittosa indifferenza della Germania – dietro cui fa capolino una dose di Schadenfreude per le disavventure del partner renano, al classico codismo nostrano, sempre a caccia di strapuntini sui vagoni “alleati”, con profusione di autodafé atlantici non richiesti né apprezzati da alcuno.
Attorno a noi, tutto il Mediterraneo è in crisi o in fiamme. Eppure, non ne sembriamo angosciati. Forse perché impegnati a preservare il primato di unico paese euromediterraneo ancora immune dalla rivolta sociale o politica, quasi dolce ci fosse naufragare in questo mare. Chiamiamola Pax Italica.
Sarebbe azzardato statuire l’affermazione definitiva della controrivoluzione. Le dinamiche sociali e culturali all’origine delle “primavere” restano tutte. Le autocrazie fondate sulla rendita energetica affrontano pressioni demografiche che stanno consumando le basi di quel modello economico e politico di successo. Il trono saudita è semivacante, con il re morente e il delfino che non scoppia di salute. Mentre l’elezione di Hassan Rohani alla presidenza della Repubblica Islamica potrebbe rimettere in movimento il pianeta Iran. L’Oriente vicino non finirà di stupirci.
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