Cina, la vittoria dei cittadini contro l’impianto nucleare
PECHINO — La protesta di alcune centinaia di cittadini, non più di mille secondo la polizia, ha convinto le autorità cinesi a rinunciare alla costruzione di un impianto civile per l’arricchimento dell’uranio. Si è trattato di una sorprendente vittoria lampo per il movimento «no nuke»: la manifestazione nelle strade di Jiangmen, città della provincia sudorientale del Guangdong, si è svolta venerdì. Subito i dirigenti locali hanno reagito promettendo dieci giorni di consultazione popolare, ma ieri hanno annunciato il ritiro del progetto. Il giornale del partito comunista locale ha diffuso sul suo sito Web una nota di una sola riga: «Per rispettare il desiderio del popolo il piano non verrà portato avanti».
Eppure, si trattava di un’opera strategica: era già stata individuata l’area di 230 ettari per la costruzione del sito, che avrebbe dovuto trattare e «arricchire» la metà dell’uranio necessario alle centrali nucleari cinesi. L’impianto sarebbe costato circa cinque miliardi di euro e nelle intenzioni dei pianificatori avrebbe dovuto rappresentare una vetrina tecnologica per l’industria nucleare della Repubblica popolare. La protesta è stata organizzata con un tam tam su Sina Weibo, il Twitter cinese. La polizia ha controllato senza intervenire mentre i cittadini di Jiangmen, città portuale di circa quattro milioni di abitanti, sfilavano in corteo mostrando cartelli e magliette con i caratteri cinesi per «nucleare» barrati da linee a croce e scritte come «Vogliamo bambini, non atomi».
Una vittoria del movimento ambientalista? O di quello che in Occidente si chiama Nimby , not-in-my-backyard , non nel mio cortile? Il fatto è che la Cina ha già 17 reattori nucleari in esercizio e altri 28 sono in costruzione o in progettazione. Questa espansione del nucleare fa parte dei piani nazionali per ridurre la dipendenza dal carbone che attualmente rappresenta il 60% dell’energia in Cina e ha un impatto ambientale devastante (nel resto del mondo nel mix energetico il carbone è il 20% del fabbisogno). Ora il nucleare dà alla Cina solo il 2% dell’energia necessaria; entro il 2020 il governo conta di raggiungere il 5%.
Un esperto nucleare basato a Pechino si è detto sorpreso dalla ritirata delle autorità del Guangdong. «Paragonato a una centrale nucleare, un impianto per la lavorazione dell’uranio è molto più sicuro perché non c’è fusione o reazione», ha detto il funzionario all’agenzia Reuters .
Contro il progetto nella zona di Jiangmen però si erano mosse anche le autorità di Macao e Hong Kong, distanti un centinaio di chilometri più a Sud. Ed è un fatto che nel giro di un anno, in una serie impressionante di casi, i governi locali si siano ritirati dietro la pressione dei cittadini: è successo nel Sichuan per una fabbrica che doveva produrre acciaio al cromo-alluminio-molibdeno, a Kunming per una fabbrica chimica, a Shanghai per una fabbrica di batterie e ancora nelle province di Liaoning, Yunnan, Jiangsu.
Ma quelli erano tutto sommato progetti minori. La rinuncia all’impianto per l’uranio sembra uno scacco. E sembra tradire la preoccupazione crescente delle autorità di fronte alla protesta alimentata dal dissesto ambientale della Cina. La gente che vede ogni giorno il cielo velato dallo smog sulle grandi città, legge sui giornali degli scandali per l’inquinamento industriale dei fiumi, delle terre, vede migliaia di chilometri di coste coperti da strane alghe verdi, non si fida più delle rassicurazioni ufficiali.
Non tutti i cittadini di Jiangmen però erano d’accordo nel contrastare i lavori: secondo il sito del governo locale 48 famiglie del villaggio dove sarebbe dovuto sorgere l’impianto avevano accettato immediatamente di lasciare le loro case in cambio di una nuova in un’altra zona. Per un indennizzo di 50.000 yuan a casa, poco più di seimila euro.
Guido Santevecchi
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