CAPITALISLAM IL MIRAGGIO DELL’ECONOMIA DI MERCATO IN MEDIO ORIENTE
Si potrà mai ricomporre la divaricazione tra le economie occidentali e quelle dei Paesi musulmani? Le primavere arabe lo facevano sperare, ma la crisi egiziana, con il suo sfondo inesorabile di povertà e disoccupazione sembra annunciare il contrario: la fioritura del “Capitalislam” rimane una battuta giornalistica, coniata per le ambizioni di Erdogan, il primo ministro turco, quando il suo era un modello per i Paesi arabi. Oggi è il nome di una frustrazione. Consultiamo Timur Kuran, uno studioso che si è occupato della “divergenza” storica tra le economie capitalistiche occidentali e quelle dei paesi islamici. Professore alla Duke University nel North Carolina, newyorchese di nascita, turco-americano, l’autore di The Long Divergence (Princeton University Press, 2011) unisce la disciplina economica con gli studi politici, giuridici e storici.
Il disastro politico egiziano riaccende l’attenzione sulle ragioni antiche della lunga divergenza. Contano ancora?
«Sì, e spiego perché. In Medio Oriente la società civile è sempre stata debole, mentre in Europa, nel corso del secondo millennio, si è progressivamente rafforzata grazie alle corporazioni, in particolare quelle urbane, ecclesiastiche ed accademiche. In Medio Oriente le funzioni svolte dalle corporazioni europee erano espletate dal waqf, una sorta di consorzio o fondazione. I waqf si caratterizzano per una struttura molto più rigida; non possono adattarsi ai mutamenti economici e tecnologici, e soprattutto non prendono parte alla vita politica. I mercanti non erano in grado di esercitare alcun controllo sui poteri del sovrano, a differenza di quanto accadeva in Europa. Il moderno Medio Oriente non ha una tradizione di freni e contrappesi a cui attingere. L’Egitto è un caso emblematico e non riesce ad attirare capitali stranieri, diversamente da quanto avviene in Asia orientale ed è avvenuto per tanti secoli in Europa».
Ha citato il waqf. In cosa consiste esattamente?
«Il waqf è una fondazione istituita da un singolo, che ne è anche proprietario, per garantire un particolare servizio “in perpetuo”, vincolando a tale scopo una serie di beni. Il presupposto è che il reddito fornito da tali beni sia sufficiente per finanziare il servizio in eterno, in modo immutabile. I beneficiari del servizio stesso non possono farci niente. Il waqf islamico così come l’ho descritto non è più molto diffuso: nel XIX secolo è stato in larga parte smantellato, ma la regione sconta ancora l’assenza di una tradizione di gruppi di individui che si confrontano sul modo di gestire i beni collettivi. Nonostante il successo delle proteste, ancora oggi gli egiziani non sono capaci di organizzarsi in comitati locali, né in associazioni professionali per discutere e risolvere i loro problemi in modo democratico».
Anche in Occidente la democrazia ha difficoltà: tempi stretti per vincere le elezioni, ma problemi con tempi lunghi.
«Se fanno fatica Paesi come l’Italia e la Spagna a trovare i compromessi necessari per risolvere i loro problemi, come possiamo aspettarci che l’Egitto, alle prese con difficoltà ben più gravi, riesca a farlo in una cornice democratica? Sono molto scettico. L’Egitto ha una sola possibilità: affidarsi a un leader straordinariamente carismatico e capace. Un leader, cioè, che sappia convincere la gente a farsi carico di una riduzione dei sussidi in cambio di benefici sul lungo periodo. La cosa migliore che possiamo fare noi outsider è cominciare a spiegare agli egiziani, e tentare di convincerli, che occorreranno molti sacrifici per uscire da questo pantano».
Servono aiuti esterni, ma quelli del Qatar e dell’Arabia Saudita non spingono in una direzione riformatrice.
«Quando era al potere, Morsi ha ricevuto otto miliardi di dollari dal Qatar e due dalla Turchia, due Paesi con governi vicini alla Fratellanza Musulmana. I fondi stanziati a sostegno della transizione, tuttavia, hanno di fatto consentito a Morsi di rinviare i cambiamenti. Ora sono i Paesi che non vedevano di buon occhio Morsi e sostenevano l’esercito, primi tra tutti l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, ad accorrere in aiuto dell’attuale governo con miliardi di dollari. Conseguenza: un ulteriore rinvio delle riforme a data da destinarsi».
Un ostacolo alle riforme è l’altissimo livello di analfabetismo.
«Gli aiuti alla regione devono essere destinati innanzitutto all’istruzione e al rafforzamento delle organizzazioni della società civile (organizzazioni, cioè, realmente indipendenti dallo Stato). I frutti di tali investimenti, tuttavia, non si vedono nell’immediato. Ci vorrà almeno un decennio prima di riscontrarne i benefici. Dobbiamo intanto riconoscere che l’Egitto si avvia a diventare uno “Stato fallito”, perché è privo delle istituzioni e delle capacità di Paesi più prosperi e in pace con se stessi, e difetta di molti dei presupposti della stabilità politica e della crescita economica».
Mentre l’Europa non riesce a dare una mano e a fare quello che servirebbe.
«Purtroppo stiamo attraversando una fase storica in cui, a causa dell’invecchiamento della popolazione, l’Europa, il Nord America e perfino il Giappone non possono lanciare un nuovo Piano Marshall. I loro cittadini non sono disposti a stanziare ingenti risorse per un Paese come l’Egitto prima di aver pensato ai tanti bisogni di casa propria».
Le sue analisi circolano nel mondo arabo?
«Ho tenuto conferenze ad Abu Dhabi, in Marocco e Tunisia. Sono stato invitato anche in altri Paesi, ma gli incontri sono poi stati annullati per motivi di sicurezza. Quando mi capita di parlare davanti a una platea araba, tuttavia, trovo sempre interlocutori aperti, anche se di idee conservatrici. Capiscono che non sono un attivista che parla per slogan, ma c’è anche chi vorrebbe mettermi il bavaglio. Considero comunque un buon segnale le traduzioni in corso del mio lavoro in arabo».
Intanto vacilla il modello turco, del “Capitalislam” di Erdogan, il primo ministro che fa picchiare e arrestare gli studenti, che si scaglia contro alcolici e ora anche contro le carte di credito, con argomenti islamici.
«Durante i suoi due primi mandati Erdogan si riferiva raramente alla religione, per non fornire pretesti alla magistratura e all’esercito per attaccare il suo partito. Adesso invoca l’Islam in ogni circostanza. Nel caso delle restrizioni agli alcolici ha ripetutamente affermato che “la religione non sbaglia mai”. Dice anche agli elettori che starebbero meglio in un’economia islamica senza tassi di interesse. È anche un’operazione populista: l’uso delle carte di credito è esploso negli anni dell’Akp (il partito di Erdogan, ndr) al governo e un rilevante segmento della crescente classe media adesso soffre il debito».
Erdogan non aveva cominciato così, è cambiato.
«Erdogan ha inaugurato il suo mandato da primo ministro nel 2003 con una piattaforma economica liberale. In linea di massima è stato fedele anche alla democrazia pluralista. Con il consolidamento della sua posizione di potere, tuttavia, quella fedeltà è venuta meno. Erdogan si è trasformato in un leader autoritario intento a ridefinire, secondo i principi dell’Islam conservatore cui s’ispira, cosa significa essere un buon cittadino turco, seguire una sana morale, condurre una vita “decente”. Si tratta di un cambiamento epocale».
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