by Sergio Segio | 4 Luglio 2013 6:59
ROMA — La Corte costituzionale boccia la riforma delle Province approvata dal governo Monti, che le aveva tagliate da 86 a 51 nelle sole Regioni a statuto ordinario. La Consulta ha giudicato illegittimo il primo passo di quel percorso, il decreto salva Italia che aveva introdotto il sistema dell’elezione indiretta sia del consiglio provinciale sia del presidente che non dovevano essere più votati dal popolo ma scelti dai consigli comunali del territorio. A cascata, però, la sentenza di ieri colpisce anche il secondo decreto del governo Monti, quello che procedeva direttamente al taglio delle Province con una procedura che, dopo essersi arenata in Parlamento sul finire della passata legislatura, era stata poi congelata fino alla fine di quest’anno.
Perché questo verdetto, sui 17 ricorsi presentati dalle Regioni? In attesa che vengano depositate le motivazioni della sentenza, la Corte spiega che non si poteva procedere con la «corsia veloce» del decreto legge. Si tratta di un «atto destinato a fronteggiare casi straordinari» e quindi non è «utilizzabile per una riforma organica e di sistema». Ma non è l’unico rilievo. Tra gli articoli della Costituzione violati c’è anche il 133, quello che fissa le procedure per modificare i confini delle Province. Un percorso complesso sostituito in quel decreto con un iter più veloce e centralizzato. L’unica consolazione, per il governo Monti, è che nello stesso giorno la Consulta ha salvato la riforma della «geografia giudiziaria», con il taglio di 31 tribunali e 220 sedi distaccate. Respinti tutti i ricorsi, l’unica sede salvata è quella di Urbino.
Cosa succederà adesso con la storia senza fine dell’abolizione delle Province? Il ministro per le Riforme costituzionali Gaetano Quagliariello dice che diventa «ancora più importante intervenire sull’intero Titolo V della Costituzione», per «semplificare e razionalizzare l’assetto degli enti territoriali». E aggiunge che bisogna «rendersi conto che mancate riforme e scorciatoie hanno un costo anche economico che in un momento di così grave crisi il Paese non può più sopportare». Il ministro degli Affari regionali, Graziano Delrio, dice che la «riforma deve proseguire» anche se «adegueremo il metodo secondo le indicazioni della Corte». Niente più decreti legge, dunque. Ma una legge costituzionale che, nella fase transitoria, potrebbe lasciare l’elezione diretta solo del presidente della Provincia, eliminando comunque le giunte e i consigli, e mettendoli alla guida di semplici comitati di sindaci del territorio. Ma, al di là delle dichiarazioni che fanno buon viso a cattivo gioco, il rischio che tutto si blocchi è più che concreto. L’Unione delle Province esulta con il presidente Antonio Saitta: «Nessuna motivazione economica era giustificata e quindi il decreto legge non poteva essere la strada legittima». E poi avverte il governo sui prossimi passi: «Per riformare il Paese si deve agire con il pieno concerto di tutte le istituzioni, rispettando il dettato costituzionale». Pronti a discutere, insomma, ma senza decisioni calate dall’alto. Con un problema in più da risolvere. La riforma aveva bloccato le elezioni nelle Province che nell’ultimo anno sarebbero andate al voto. Sono state commissariate, l’idea era di mandarle al voto con il nuovo sistema indiretto bocciato dalla Corte. E adesso?
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