A casa di Toni Morrison

by Sergio Segio | 14 Luglio 2013 9:19

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NEW YORK. Dall’angolo dove vive si vedono il passato e il futuro degli Stati Uniti: l’Empire State Building e l’ormai quasi terminato One World Trade Center. È uno dei pochi punti dove, ad altezza strada e semplicemente girando la testa da una parte all’altra, New York regala questo privilegio. È mezzogiorno e mentre il mitico edificio degli anni Trenta è avvolto da una lieve caligine, il sostituto delle sventurate Torri Gemelle e i grattacieli della punta meridionale di Manhattan sono inghiottiti dalla foschia.
Non però l’edificio in cui vive Toni Morrison, una costruzione antica e ora restaurata, di soli tredici piani. Qui la scrittrice, con i suoi ottantadue anni, scruta la vita dei dodici romanzi che narrano la storia sociopolitica della sua razza intrecciata a quella del suo paese: la storia degli schiavi, la storia degli afroamericani e delle influenze reciproche tra loro e il resto della società. Passato e presente si fondono nelle sue parole serene, che riassumono parte del tragitto che ha seguito da quando cominciò a pubblicare, nel 1970. Aveva trentanove anni. Un po’ tardi, secondo alcuni. Stupidaggini. Dopo quel debutto, intitolato L’occhio più azzurro, la scrittrice ben presto si rimise in pari, facendo strage delle varie teorie sul cursus honorum che dovrebbe seguire un grande scrittore, quando venti anni fa, con sette romanzi all’attivo, fu insignita — prima donna nera — del premio Nobel per la letteratura. Fu come un fiammifero che fece esplodere il suo lato più proteiforme, perché da allora non ha mai smesso di esplorare nuove forme di scrittura, di passare al setaccio le orme della storia e dialogare con il lettore. La sua ultima sfida, lo scorso anno, è A casa: dire di più con meno parole.
Ding!… L’ascensore si apre. Toni Morrison compare e avanza di qualche passo, entrando con un sorriso nel salone soffuso di luce ambrata: il suo volto scuro risalta, fra il foulard azzurro con arabeschi bianchi che copre la capigliatura grigiastra acconciata in treccine rasta e il maglioncino bordeaux, abbinato a un pantalone grigio e scarpette nere con la punta ramata. Nessuno le darebbe ottantadue anni. Si accomoda su un divano beige e appoggia gli occhiali alla sua destra, prima di cominciare a parlare del pellegrinaggio intrapreso.
«Ora scrivo molto meglio, riesco a dire di più in meno pagine. Sia A casa che il mio precedente  romanzo, Il dono, piacquero molto al mio editore. Ma dopo aver letto le bozze mi disse che voleva più pagine. Tornai a casa, scrissi qualcosina in più, rilessi il tutto e mi resi conto che non c’era bisogno di altro. Non volevo alterare la struttura. Mi piaceva molto così. E mi sono fermata. Io ho sempre cercato di produrre un impatto forte sul lettore con quello che scrivo. E se si adotta come regola la brevità bisogna fare molta attenzione con le descrizioni, per preservare quello che si desidera trasmettere. Non voglio che la gente si distragga nemmeno per un istante. Voglio fare in modo che il lettore si abbandoni, che legga una pagina dopo l’altra. L’inizio di un romanzo è la cosa più importante per me, come il finale. Mi interessa una letteratura ricca di immagini, con un linguaggio e parole intense, ognuna con la propria forza e il proprio luogo preciso. Scrivo in questo modo perché queste sono le storie che mi piace leggere. Come i romanzi di Dickens o di Victor Hugo, che quando cominci a leggere vieni preso dalla storia e non vuoi fermarti. Questo è il ritmo di lettura che ha sempre suscitato il mio interesse. Prima di cominciare a scrivere di solito so già come comincerò e come terminerò la storia. Quello che non so è come saranno i personaggi o gli scenari, anche se un’idea ce l’ho e mi ci attengo. Quello che resta fra l’inizio e la fine lo scrivo via via».
Ride con autentica allegria, un riso contagioso. Nata a Lorrain, nell’Ohio, e battezzata Chloe Anthony Wofford, rievoca il suo avvicinamento alla scrittura mentre la mano destra giocherella con i suoi occhiali senza guardarli e la sinistra resta chiusa dal momento in cui si è seduta: la apre appena solo quando incrocia le mani sul ventre e fa girare i pollici. Cresciuta in un ambiente povero, è una dei quattro figli di un operaio e di una casalinga. Da ragazza lavorò come cameriera. Poi si laureò in filologia inglese e andò a lavorare come redattrice nella casa editrice Random House, a New York. Fu in questo periodo che pubblicò il suo primo romanzo e creò il suo nome d’arte, unendo il soprannome con cui la chiamavano in famiglia, Toni, e il cognome del suo ex marito, Morrison. Così è passata alla storia della letteratura. E con questo nome va raccontando da quarant’anni la realtà partendo dalle proprie radici. Questo fa anche il suo ultimo romanzo, A casa: demistificare e smascherare l’America degli anni Cinquanta mettendo a nudo le mele proibite del sedicente Paradiso.
«Io voglio rivelare una verità sulla vita quotidiana degli Stati Uniti, la vita degli afroamericani che vivono in un contesto storico che è stato occultato. Esiste l’idea degli anni Cinquanta come di un racconto di fiabe, dove tutti avevano un lavoro, la società andava bene, c’erano programmi televisivi con famiglie felici e una vita sociale e politica positiva. Ha proliferato l’idea che erano anni meravigliosi. Ma non era così. La verità è che c’erano conflitti sia visibili che sotterranei.
A casa cerca di fare luce su temi quali la segregazione, gli strascichi di guerre come quella di Corea, il razzismo, i pregiudizi, le persecuzioni anticomuniste, la disuguaglianza. Tutti temi che la società ha voluto occultare e dimenticare. Alle nazioni piacciono i racconti patriottici, perché danno sicurezza alle persone. Mentre la realtà è una triste verità dove abbiamo molto di cui vergognarci.
Quello che voglio fare è mostrare che la storia è stata sempre scritta dal conquistatore, non dal conquistato. L’ho fatto ne Il dono, in Amore e in tutti gli altri miei libri. Cerco di farlo assumendo il punto di vista del conquistato. Quello che faccio è togliere i cerotti per lasciar vedere la cicatrice della società, la realtà. Non bisogna aver paura di guardare il passato perché solo così possiamo sapere chi siamo».
Seduta lì, immersa nella luce ambrata, a rievocare l’altra storia del suo Paese, Toni Morrison potrebbe essere Baby Suggs, la nonna di Amatissima, la matriarca che dopo aver ottenuto la libertà predicava armonia in una radura nel bosco e che nei suoi ultimi anni aveva fame di colori. Svela le chiavi delle sue ossessioni senza smettere di analizzarle. La sua voce bassa e nitida sorvola la schiavitù, il razzismo, la memoria, il passato e l’occulto, la donna e il femminismo, l’amicizia e l’amore. Tutto all’ombra di una presenza assente: la morte.
«Ne Il dono, per esempio, indago sulla schiavitù e la cultura afroamericana prima che il razzismo
diventasse istituzione. Il razzismo non ha nulla a che vedere con la nostra razza in quanto esseri umani. È soltanto una questione di potere, è sempre stato così. La schiavitù ha radici in tutto il mondo, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Spagna, in Grecia, in Russia, in Inghilterra. In buona sostanza si tratta di essere padroni di qualcuno, ed è un potere che ostentano gli aristocratici e i politici. La vera questione è dividere i poveri. A quell’epoca c’erano bianchi che erano poveri, ma i politici li separarono dai neri per indebolire i neri e mantenere il controllo. E lo hanno mantenuto, sempre! Hanno sfruttato i poveri e hanno inflitto loro sofferenze, indipendentemente dalla razza. Le radici di questa struttura sono evidenti anche nel sistema sociale attuale. Per questo è fondamentale la memoria. Se una persona non è consapevole del proprio passato, da dove tirerà fuori i suoi valori? Se io non mi ricordo della mia vita di dieci o cinque anni fa, come faccio a sapere da dove vengo, chi sono, che cosa è importante per me? Devo conoscere e riconoscere il passato se voglio che alcuni di questi aspetti possano farmi da guida. Io parlo di quello che le persone occultano del proprio passato, perché ha a che vedere con la ricerca della verità. Occultare elementi del passato è qualcosa che lascia strascichi durante tutta l’esistenza. Ma a un certo punto bisogna pure affrontarlo se si vuole aspirare a una vita degna e felice».
Non c’è dubbio, Toni Morrison è Baby Suggs. È lei, la schiava libera, lei stessa, Chloe Anthony, e con lei tutte le donne. Ora è il turno di uno dei suoi temi fondamentali, di quello che forse riflette meglio l’essere umano: l’amore.
«Noi esseri umani siano le uniche creature di questo mondo che amano. Gli animali magari proteggono i loro cuccioli, ma non sanno che cosa sia amare, non sono in grado di esprimerlo e il linguaggio è una nostra peculiarità esclusiva, il linguaggio è il nostro strumento per poter esprimere questo amore. Gli uccelli cantano, il cane abbaia, ma il linguaggio è quello che ci distingue, perché ci consente di comunicare questo amore… Ci sono molte forme di amore: verso Dio, verso la propria famiglia o il proprio Paese, ma fra tutte le forme l’amore verso il compagno o la compagna è il più reale. Anche se oggigiorno, nella nostra società, osserviamo l’amore soprattutto attraverso le lenti del sesso. Nei miei libri adopero il sesso come un impulso, un incentivo, ma non è sufficiente, e quindi lo uso più come una guida. Oggi, se uno ci fa caso, le donne sono più nude. C’è una distorsione dovuta al fatto che il sesso viene visto come intrattenimento, facile ed economico. Puro capitalismo».
Si lascia cadere mollemente sul lato destro. Le sue parole imboccano viali laterali per tornare al punto. «Prenda A casa, per esempio. Il titolo originale del libro è Home.
In inglese significa il luogo di cui sono originario, la comunità, il focolare, mentre in altre lingue significa casa: la struttura.
Home è invece quel desiderio, quella fame di ricordare, di tornare, di cercare il luogo a cui si appartiene. Quando gli africani arrivarono qui come schiavi furono separati e venne loro impedito di sposarsi e di avere figli. Li divisero a seconda dei dialetti per impedire che comunicassero fra loro. Li spogliarono di qualunque home.
Eppure oggi gli afroamericani si sono infiltrati nel sistema: ora sono loro che comandano nella cultura, nella lingua, nella musica, nello stile, si sono trasformati in un virus benefico per la società. Siamo tutti immigrati. Solo i nativi non esistono più, perché li hanno ammazzati. La vera ricchezza del nostro paese è proprio questa mescolanza. Anche la crisi economica con cui ci misuriamo è legata al valore che attribuiamo alla ricchezza. Tutto ruota intorno alla ricchezza ed è difficile analizzare il valore di un essere umano. Io sono cresciuta in una famiglia povera, ma nessuno si vergognava di essere povero, perché eravamo tutti così. Corriamo il rischio di rappresentarci la vita valorizzandola solo attraverso la ricchezza, e questo è uno dei pericoli del presente: affermare che vivere una vita valida significhi questo».
Toni Morrison respira profondamente e ringrazia per non averle fatto affrontare un tema su cui ormai ha detto quasi tutto: Barack Obama, che con la sua prima vittoria nel 2008 la fece sentire per la prima volta davvero cittadina degli Stati Uniti. Sorride, e la sua mano va al piccolo ciondolo a forma di cuore appeso alla catenina ricavato da una pietra gialla. Apparteneva a uno dei suoi figli, scomparso circa due anni fa. Senza smettere un attimo di parlare della speranza che il suo Paese possa uscire dalla crisi lascia il salone per accompagnarmi all’ascensore. Ding! Quando si gira mi saluta con la mano sinistra, lasciando intravedere un timido e fugace tintinnio delle chiavi del suo appartamento. Fuori la foschia si è dissolta restituendo nitidezza ai grattacieli, e l’Empire State Building e il One World Trade Center sono di nuovo perfettamente visibili.
© El País Semanal
Traduzione di Fabio Galimberti

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