Sinfonia in blu di Norvegia nel cuore di un’altra modernità

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Il blu domina, insieme all’oro e al bianco, pure il soffitto e le pareti della piccola chiesa di Dypvåg, nella Norvegia meridionale, che risale al XII secolo. Il blu — il colore dai significati più diversi e contraddittori — si addice alla Norvegia: colore di lontananza e di nostalgia, del giacinto che attira Persefone negli inferi e del manto della Vergine, dei cieli di Chartres e dell’oceano di Gauguin, della profondità per Kandinsky e per Novalis della poesia stessa. Nella vicina cittadina di Risør, sul mare, c’è un festival musicale dedicato al blu, a quel blu dei fiordi norvegesi e degli occhi delle donne nei romanzi di Hamsun — incantati, dolorosi, struggenti, spietati.
La chiesa parrocchiale di Dypvåg — «una delle più antiche e più belle di tutta la Norvegia», dice il dépliant, un porto sicuro per l’anima e il corpo di pescatori e marinai — ha, nonostante i rifacimenti e le ristrutturazioni, la robusta e scarna grazia delle chiese di legno sparse in tutto il Paese, casa di Dio ma prima ancora di famiglie e di uomini la cui pietas comprende non solo le preghiere ma anche e soprattutto il lavoro delle mani abili a modellare il legno, a costruire la casa e la barca in confidenza con la direzione del vento e i movimenti delle correnti.
Vi sono tavole di pittori pregevoli, un pulpito e un baldacchino di una schietta maestà. Arnoldo Frigessi mi racconta la storia del fonte battesimale, una vecchia storia di famiglia della moglie Ingrid, che come lui insegna Statistica all’università di Oslo. Il fonte battesimale era stato tolto dalla chiesa e messo nel giardino della casa dei bisnonni o trisnonni della signora Ingrid. Per alcuni anni i due coniugi si immalinconivano di non avere figli, finché la donna pensò che potesse trattarsi della punizione divina per aver declassato a mobilio ornamentale un oggetto di culto e anzi legato al momento fondamentale nella vita di un cristiano, il Battesimo. L’uomo era scettico, ma accondiscese al desiderio sempre più pressante della moglie e il fonte battesimale fu ricollocato al suo posto nella chiesa, dove si trova tuttora. In un breve giro di anni i due ebbero undici figli.
Davanti all’antica chiesa c’è, come giusto, il cimitero, che le appartiene non per ragioni di confessione religiosa ma perché contiene il mondo e le vite della gente del luogo. Non a caso in molte lingue germaniche cimitero si dice «cortile della chiesa», giardino di casa. I nostri cimiteri sono città, necropoli e metropoli di marmo, maestosi trionfi della morte e del suo ordine; fanno venire in mente la speculazione edilizia più che la vita eterna. Nei Paesi scandinavi, come in altri, le tombe, quasi sempre di piccola e inappariscente dimensione, sono sparse in modo casuale tra gli alberi; alcune quasi dissimulate nell’erba, un sottobosco di nomi e di date. Nessuna pretenziosa cappella di famiglia con cupole e colonne, che qui sarebbe ridicola come un re a letto con la corona in testa.
Un luogo di passeggiate, di familiare vicinanza, in cui perfino la parola «morte» suona troppo pomposa. Lapidi e croci di pietra recano nomi di pescatori, contadini, commercianti, marinai, costruttori di bastimenti a vela che hanno creato la prosperità della vicina Risør, messa poi in crisi dalle navi a vapore ma presto risollevatasi. Le linde, signorili ma sempre contenute case degli armatori di un tempo e di oggi sono un concentrato di questo straordinario Paese poverissimo un secolo fa — basti pensare alla grande emigrazione negli Stati Uniti — e oggi il più ricco Paese del mondo, senza una lira di debito pubblico. Ricco di una ricchezza concreta, fatta di cose (petrolio, gas, pesca) e non, come sempre più e quasi dappertutto altrove, di pezzi di carta riempiti di zeri che alla fine si rivelano veri zeri ossia nulla, tasche piene di assegni di un viaggiatore sperduto nel Sahara senza una goccia d’acqua.
La ricchezza non ha intaccato lo stile di vita del Paese, che anzi provvede con esplicite leggi a impedire speculazioni avventate, grandezzate finanziarie. La Norvegia sembra ancora la «patria nordica e casalinga del sentimento» amata da Thomas Mann, il paesaggio di una «borghesità interiore» lontana dalla pacchiana borghesia intellettualmente e moralmente pezzente che imperversa e sta suicidandosi in molti Paesi d’Europa, a cominciare dall’Italia. Il «borghese» norvegese sembra ancora quello che affascinava Engels, democratico e progressista in quell’armonia non ancora scissa fra etica del lavoro e sentimento.
La figura del «padrone di barca» — sotto queste lapidi ne giace più d’uno — sembra unire il commerciante e l’artigiano, una dimensione ancora classica dell’individualità, quasi uno stile ottocentesco in un Paese che è oggi una potenza economica mondiale e che ha avuto una straordinaria letteratura, una delle più grandi — Ibsen, Hamsun e tanti altri — che hanno indagato la crisi della modernità, la disgregazione dell’Io, la radicale trasformazione del mondo e dell’uomo iniziata più di un secolo fa e che sta ancora avvenendo.
Sulle tombe, nomi e date di nascita e di morte riassumono, con essenzialità e discrezione, l’esistenza dei loro inquilini.
Accanto a un grande fiore c’è una piccola lapide, anzi una pietra vagamente rotonda con un diametro di circa venti centimetri. C’è un nome, Jens Keilon, e una sola data: 26.7.1993, evidentemente il giorno della nascita ma anche della morte. Quell’uomo ha vissuto solo ventiquattro ore. Cosa sarà successo, in quelle ventiquattro ore? La sua esistenza è più interessante, anche perché più segreta e sconosciuta, di quelle degli altri parrocchiani che lo circondano. Mi chiedo se quel suo tempo vissuto è stato solo il male o la sequenza del male che ha interrotto il suo cammino, oppure se c’è stata anche felicità, il riconoscimento inarticolato ma non meno intenso della madre peraltro già così ben conosciuta e reincontrata in altro modo e con altro volto. La sua esistenza è una totalità, non meno delle altre vicine a lui; una piccola, piccolissima esistenza inserita nel fluire del mondo, minima ma assoluta e insostituibile. Rispetto all’enorme labirinto delle cose che fanno il mondo, la Storia, l’universo e pure l’esistenza di chi muore a quaranta o a ottant’anni, questa è ridicolmente irrilevante, una goccia in un oceano, eppure unica e irripetibile.
Penso a Jens, a come la curva della sua vita si sia intersecata con quella del mondo. Quel giorno — il 26 luglio 1993 — il «Corriere» riporta i funerali di Gardini, suicidatosi per timore di essere arrestato a causa di presunte malversazioni, e la notizia di un Boeing sudcoreano schiantatosi a Seul provocando 63 morti, mentre un articolo di Alfio Sciacca racconta e commenta la notizia di un giudice che aveva chiesto alla mafia di sparare a un docente che aveva bocciato suo nipote. Milizie sciite attaccano il Libano, due ragazzi muoiono in un incidente a Milano, si levano vivaci proteste negli Stati Uniti contro la condanna a morte di un cane colpevole di aver morso una bambina.
Ogni vita, anche la più sconosciuta e rifiutata, è legata, nel mondo, a tutte le altre. La vita è un corale, specie nel suo momento finale che la riassume. «Corale alla fine del viaggio», dice il titolo del grande romanzo di Erik Fosnes Hansen sui suonatori dell’orchestra del Titanic che continuano a suonare mentre la nave affonda.
Il quotidiano, in quel 26 luglio 1993, non menziona Jens, ma neppure il presidente Clinton. Di Jens potrebbero dire che ha pianto, anche fragorosamente, uscendo dal grembo all’aperto; che ha succhiato, anche se forse non ancora il vero e proprio latte materno, e probabilmente che si è lamentato e a ragione, ben più di quanto potesse rendersene conto. Forse, in qualche momento — tenuto in braccio, o con la bocca al capezzolo — pure che è stato felice.
Ma anche se avessero scritto la sua biografia, sarebbe stata una biografia incompleta, relativa all’ultima fase, perché Jens non ha vissuto solo un giorno, bensì nove mesi più un giorno e in quei nove mesi ha nuotato, ha sentito voci che forse per lui erano la felicità, ha scalciato vigorosamente. Ha vissuto, anche se non ha avuto la possibilità di rendersi conto della sua vita, di esserne razionalmente consapevole.
Ma in questo, forse, non è stato molto diverso da quegli altri suoi contemporanei e compagni di cammino per le incomprensibili strade del mondo, che in quel giorno potevano leggere il proprio nome e magari vedere la loro ecografia, pardon fotografia, sul giornale.


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