«Sparano per uccidere» Il Cairo conta i morti e sprofonda nel caos

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IL CAIRO — Gli elenchi dei morti e feriti sono scritti a mano su semplici fogli di carta spiegazzati e appesi al muro presso l’entrata principale dell’ospedale municipale di Al-Nasr. Non sono leggibili con facilità. Donne e uomini di ogni età li scorrono per qualche minuto. C’è chi piange, chi corre via, chi cerca spiegazioni, un medico, un amico, un testimone, qualcuno che aiuti a rintracciare il figlio, il fratello, il padre, il compagno. Contiamo 21 nomi sulla lista dei decessi e 166 su quella dei feriti. Liste simili sono esposte in altri ospedali e cliniche della capitale. Quanti sono in tutto? La domanda ha dominato ieri lo scontro che lacera l’Egitto. Nessuno ha una risposta univoca capace di convincere tutto il Paese. I bilanci di sangue sono diventati oggetto di contesa politica, l’ennesimo fattore che getta benzina sul fuoco della guerra interna. Da una parte i Fratelli musulmani accusano i militari di avere compiuto «un massacro premeditato». I loro esponenti hanno indicato in un primo momento un bilancio di «oltre 120 morti e circa 1.000 feriti». In serata riducevano il numero dei decessi a una settantina nella sola Cairo, oltre ad alcune decine nel resto del Paese, specie ad Alessandria. Dall’altra parte gli esponenti della giunta che quasi un mese fa ha defenestrato il governo dei Fratelli musulmani guidato dal presidente Mohamed Morsi parlano di 65 morti nella capitale. Il vice presidente Mohamed El Baradei ha condannato con un messaggio su Twitter «l’uso eccessivo della forza e le morti» negli scontri. E il segretario di Stato Usa John Kerry ha espresso «profonda preoccupazione per il massacro».

Ciò che appare certo è comunque che molti rivoltosi sono stati colpiti da proiettili. I portavoce del ministero della Difesa negano. Ma i medici parlano di «decine di ferite di proiettili ad alta velocità alla testa, al collo e ai polmoni». Ieri mattina i militanti dei Fratelli musulmani ancora asserragliati presso la moschea di Rabaa Al Adawyah (il loro quartier generale nella capitale) accusavano i soldati di avere «posizionato cecchini sui tetti dei palazzi più alti». «Sparavano per uccidere», sostengono. Un 28enne, Saad Mahmoud Saad, i vestiti inzuppati di sangue, da una sedia a rotelle ci ha mostrato la sua orribile ferita al collo. È vivo per miracolo. «Ho visto poliziotti in civile che ci sparavano contro come ai tempi della rivoluzione nel 2011. Penso tra loro vi fossero gruppi di criminali presi direttamente dalle prigioni e usati come provocatori», ha detto. Accuse simili arrivano però anche dal regime. Le televisioni di Stato diffondono un video ripreso venerdì sera in cui si vedono uomini armati col volto coperto e nascosti tra i manifestanti pro-Morsi sparare con mitra automatici verso gli agenti .

Violenze annunciate. Già nel pomeriggio di venerdì era evidente che la situazione sarebbe degenerata. La grande manifestazione voluta dal generale Abdel Fattah Al-Sisi, il ministro della Difesa e vero uomo forte del regime, era stata ingegnata per legittimare la repressione militare. I Fratelli musulmani hanno risposto intensificando i presidi di piazza. I primi scontri sono avvenuti ad Alessandria. Al Cairo sembra che gli agenti siano intervenuti con il pugno di ferro quando, poco prima dell’alba, gruppi di attivisti del fronte islamico hanno cercato di bloccare le arterie maggiori attorno a Rabaa Al Adawyah. Qui si trova tra l’altro il podio dove il 6 ottobre 1981 venne assassinato il presidente Anwar Sadat, uno dei luoghi simbolo del decennale braccio di ferro tra esercito ed estremisti islamici. La polizia ha attaccato, poi si è ritirata, senza entrare nella moschea, dove tra l’altro si trova un pronto soccorso di fortuna con i medicinali accatastati sui tappeti della preghiera. Ieri sera i due fronti apparivano più militanti e belligeranti che mai. Cadono nel nulla gli appelli alla moderazione che giungono dalla comunità internazionale. Nazioni Unite, Europa e Stati Uniti chiedono l’apertura del dialog o.

Lorenzo Cremonesi


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