È MORTO “LALLO” RUSSO ANIMA DI BELFAGOR

by Sergio Segio | 27 Luglio 2013 8:00

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Semplicemente “Belfagor”. Così spesso si firmava, immedesimandosi con la rivista luciferina che ha diretto e a cui ha dedicato una vita, nelle lettere agli amici e colleghi. Carlo Ferdinando Russo, o più semplicemente Lallo, è mancato ieri nella sua casa di Bari. Aveva 91 anni: nato a Napoli il 15 maggio 1922, figlio del grande critico letterario Luigi, era professore emerito di letteratura greca. Allievo di Giorgio Pasquali alla Normale di Pisa e poi di Günther Jachmann a Colonia (di cui fu assistente nel 1948), Russo è stato autore di un celebre studio sulla drammaturgia aristofanea (tradotto in inglese e costantemente ristampato in edizioni cartacee e digitali). Il suo nome rimarrà inoltre negli annali internazionali per aver commentato, primo e unico, il più antico testo poetico greco conosciuto, La coppa di Nestore (nel 1954 per i Lincei). Ma soprattutto il suo nome è legato alla rivista di varia umanità che è stata Belfagor.
Fondata dal padre nel 1946, dopo la sua morte passò in mano al figlio, nel 1961. Da allora la rivista più eretica del panorama italiano (e non solo: ce la invidiavano in molti, in Europa e non solo) ha punzecchiato tutto e tutti. Mai un numero banale: non rispettava alcuna parrocchia, era una rivista “libera” in un’accezione che l’Italia difficilmente ha conosciuto. E per questo negli anni si fece non pochi detrattori, in un ambiente come quello accademico dove la cortigianeria e la piaggeria nei confronti del barone di turno è la regola. Russo non si scomponeva, mai, anzi un po’ se ne compiaceva perché aveva il gusto per la polemica — una polemica vera, mai gratuita, sempre intelligente e critica. Nel solco del padre Luigi, quindi, che nel primo numero di Belfagor (il nome preso in prestito dalla novella di Machiavelli aveva turbato Benedetto Croce, tanto che gli consigliò di trovarne un altro meno connotato) si schierava contro la militanza ideologica scrivendo: «Non chiediamo a nessuno la tessera del suo partito, chiediamo soltanto serietà di lavoro e spregiudicatezza di orientamento critico».
L’idea, poi sempre conservata negli anni, era di opporsi al conformismo dell’accademia italiana, quindi produrre studi che non fossero frutto di un certo “dilettantismo” di molta cultura nostrana.
Belfagor ha coltivato e ospitato il meglio del Novecento. Fra le sue pagine sono passati Adolfo Omodeo e Pietro Calamandrei, Gaetano Salvemini e Norberto Bobbio, Livio Sichirollo e Salvatore Settis, solo per fare qualche nome. E ovviamente Benedetto Croce, che era di casa. Con Lallo Russo conservò un rapporto di intima familiarità anche dopo aver rotto intellettualmente col padre Luigi, nel 1948. Lallo lo stuzzicava amichevolmente per il suo esser nobiluomo liberale, ma sottolineava sempre il grande peso che aveva avuto nella cultura italiana. Negli ultimi anni sentiva la responsabilità della rivista — va ricordato Raffaele Ruggiero, suo collaboratore e segretario di redazione, che nell’ultimo decennio ha assicurato un lavoro prezioso al suo fianco. Sentiva il peso di una rivista di cui si faceva carico. Per questo aveva deciso che il numero dello scorso novembre fosse l’ultimo di Belfagor.
Il mondo degli studi ha sentito subito la mancanza di quell’officina di idee e laboratorio di studiosi eleganti e raffinati. E ci è mancato lo spirito, l’enorme libertà e onestà intellettuale che si respirava da ogni pagina, la laicità difesa lancia in spalla, l’amore per il sapere. Non è un caso che solo pochi mesi dopo la sua chiusura se ne vada anche Carlo Ferdinando Russo. O, più semplicemente, Belfagor. 

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