Un aiuto per uscire dalla povertà

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C’è bisogno di un simile schema? Sì, per due motivi. I nostri livelli di povertà sono fra i più alti d’Europa, soprattutto sulla scia della crisi. E il sistema di protezione sociale è privo di una «rete di sicurezza».
Eccettuata la pensione sociale per chi ha più di 65 anni, tutti gli altri tipi di sussidio pubblico sono di natura «categoriale» (invalidità, non autosufficienza) oppure dipendono dalla buona grazia e dalle disponibilità finanziarie dei Comuni, che hanno ormai le casse vuote.
Come si fa a stabilire chi è veramente povero? Il metro è la soglia di povertà «assoluta» calcolata dall’Istat. Per due genitori e due figli piccoli, la cifra varia tra 980 e 1.415 euro al mese, a seconda del Comune di residenza. Sono i soldi necessari per l’alimentazione, l’abitazione e il vestiario, calcolati secondo standard minimi di sussistenza e di decoro. Chi richiede il sussidio, di importo pari a quanto serve per raggiungere la soglia, deve rispettare il nuovo Isee (Indicatore situazione economica equivalente): uno strumento disegnato per misurare in modo accurato la situazione economica delle famiglie, evitando imbrogli o favoritismi. L’Istat calcola che le famiglie assolutamente povere siano circa il 6,8% del totale (la quota sale al 9,8% al Sud, scende al 5,5% al Nord).
Il rischio dei sussidi di povertà è che creino «assistenzialismo», premiando quelli che non si rimboccano le maniche onestamente. In linea con le migliori esperienze europee, la proposta Acli prevede però condizioni molto precise per accedere e mantenere la prestazione, soprattutto per quanto riguarda la disponibilità al lavoro e alla formazione professionale. Nessun «pasto gratis», insomma, ma piuttosto un «trampolino» per tornare a camminare con le proprie gambe, anche con l’aiuto del terzo settore e dei privati.
Per far sì che tutti i poveri raggiungano la soglia di consumo «decente» bisognerebbe investire circa 6 miliardi l’anno: le Acli propongono di arrivarci per gradi entro quattro anni. È vero, ci sono i vincoli di bilancio. Ma manteniamo il senso delle proporzioni. Solo per le pensioni di invalidità civile spendiamo circa 12 miliardi. E per le deduzioni e detrazioni fiscali più di 100 miliardi l’anno. Fra gli «assolutamente poveri» c’è almeno mezzo milione di bambini. Quale sensibilità (e futuro) ha un Paese che non investe sui propri figli?
I veri ostacoli al progetto sono due. Il primo è culturale: l’idea che ogni euro disponibile vada oggi speso per la crescita e il lavoro. È una posizione corretta. Ma anche nei Paesi più dinamici ci sono sempre state e sempre ci saranno, purtroppo, sacche di indigenza che non scompaiono spontaneamente e richiedono misure specifiche. Sempre sul fronte culturale, bisogna poi spazzar via l’enorme confusione concettuale che circonda il dibattito italiano su questi temi. Il reddito di inclusione sociale è cosa molto diversa dal reddito di cittadinanza, dal salario minimo, dal sussidio di disoccupazione universale e così via. Le Acli hanno creato un sito Internet (www.redditoinclusione.it), utilissimo a chiarire le idee.
Il secondo ostacolo è organizzativo. Se introdotto, il Reis non sarebbe un regolamento da applicare con mentalità burocratica, ma un programma da gestire con pragmatismo ed efficienza, avendo in mente i risultati. Qui casca l’asino, si dirà. Ma se questo Paese non si dà una mossa per riformare la burocrazia, a cadere saremo tutti e soprattutto i nostri figli. Ormai anche molti Paesi in via di sviluppo dispongono di schemi tipo il Reis. Se non riusciamo o non vogliamo allinearci all’Europa, cerchiamo almeno di non farci doppiare dal Brasile o dall’Uruguay.


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