Il metro della felicità
NEW YORK. Sono le 2 e 49 del 15 aprile, la prima bomba esplode sul traguardo della maratona di Boston. Tredici secondi dopo scoppia la seconda. Per gli americani è il giorno più triste dell’anno, lo dice il buon senso, ma lo conferma la nuova scienza che misura la felicità. Niente più sondaggi lenti e costosi, adesso le nostre emozioni viaggiano alla velocità della rete. È Twitter a catturare l’umore di una comunità. Ha iniziato l’università di Harvard due anni fa, poi la tecnica si è affinata arrivando a sfidare per precisione di risultati i grandi istituti di ricerca come Gallup. La formula magica, va da sé, è quella che ormai regola le nostre vite: l’algoritmo. I sistemi cambiano uno dall’altro, ma il concetto base è sempre lo stesso: i computer raccolgono milioni di cinguettii dal social network, li archiviano in base a parole chiave, danno in pasto i big data all’infallibile equazione algebrica e il gioco è fatto.
Emisurare la felicità non è un gioco. Secondo un sondaggio recente l’81% degli inglesi sostiene che renderli contenti dovrebbe essere il primo obiettivo del loro governo. Il Dalai Lama ne ha fatto una battaglia personale, sposando l’iniziativa del Buthan che ha introdotto per primo il Fil che, al contrario del suo gemello Pil, non registra la ricchezza ma la gioia di un popolo. Il nostro Istat ha appena lanciato “la rivoluzione culturale”
del Bes, l’indice che misura il Benessere equo e solidale prendendo in considerazione vari parametri non finanziari: dal paesaggio all’istruzione. Ma le emozioni volano veloci, sono personali, non si pesano in barili, non hanno un prezzo che sale e che scende come in Borsa. Da qui la necessità per gli scienziati di inventare un termometro. L’ultimo, come racconta la rivista The Atlantic, è figlio di un team della University of Pennsylvania e della Michigan State University. Dal giugno 2009 al marzo 2010 nel loro setaccio informatico sono passati 30 milioni di tweet a coprire 1300 contee sparse per gli Stati Uniti. Nella mappa interattiva si alternano il verde, che indica dove si sta meglio e il rosso dove sarebbe meglio non abitare. A Miami è un paradiso, così come a Boston e New York, va male tra Texas, Arizona e New Mexico: sarà l’aria secca del deserto. Il programma usa lo stesso metodo che serve per isolare le parole più pronunciate nei discorsi: quello con le nuvole di vocaboli. Felicità fa rima con palestra, mare e fitness: l’attività fisica, l’aria aperta aiutano a scacciare i cattivi pensieri. Poi tocca a beneficenza, solidarietà, conferenze e incontro: ovvero tutte quelle definizioni che raccontano una vita sociale brillante. I segnali che indicano un umore pessimo sono due su tutti: noia e stanchezza. Johannes Eichstaedt e Andrew Schwartz che
hanno guidato lo studio dicono: «La potenza di questa ricerca è che grazie alla raccolta delle sensazioni personali riesce a mostrare lo stato d’animo di una città, di una nazione».
L’università del Vermont con il suo “Hedonometer” va ancora più in profondità e il censimento è zeppo di spunti in bilico tra scienza e divertimento. Gli americani sono contenti al mattino presto durante la colazione, e alla sera quando si concedono il Martini dopo il lavoro: in mezzo un mare di tristezza. Il giovedì è il momento da dimenticare, la domenica all’alba quello che porta più serenità. La Louisiana è lo Stato dall’umore peggiore, le Hawaii quello dove la risata non manca mai. La città maglia nera è Beaumont nel Texas orientale, la vincitrice della speciale classifica è Napa, non a caso capitale del vino
Made in Usa.
In questi risultati però emerge uno dei punti critici del metodo: sia le Hawaii che Napa sono luoghi turistici, come lo sono Boston e soprattutto New York. È dunque più facile per chi sta in vacanza scrivere belle parole sul proprio profilo Internet. Altro dato che zavorra questo tipo di ricerche è l’identikit di chi frequenta i social network, che — benché ormai abbiano una diffusione quasi capillare — non sono ancora un campione perfetto dal punto di vista statistico. Infine c’è l’analisi delle parole che presenta qualche controindicazione: le bestemmie e le espressioni volgari abbassano il rating ma il loro senso non è assoluto, dipende dalla cultura del posto, dall’uso popolare. «È vero che alcune regole classiche dei sondaggi tradizionali non sono rispettate, ma ogni volta che siamo andati a confrontare i nostri risultati con quelli ottenuti con i vecchi metodi abbiamo sempre avuto riscontri positivi, rigorosi», assicurano i ricercatori. Tanto che ormai Twitter è usato da giornali e tv per raccontare la realtà. La Cnn pubblica uno studio della University of Illinois at Urbana-Champaign che indica come i credenti siano più felici degli atei: i primi twittano con il cuore, gli altri con la testa. Quelli che hanno la fede in Dio usano più spesso parole come famiglia, amore, amicizia e gioia. Gli scettici indulgono al cinismo: errore, male e ragione sono i loro vocaboli più gettonati.
In Italia ci ha pensato l’Università degli Studi di Milano con un’iniziativa dal nome evocativo: “Voices from the blog”. Oltre 40 milioni di tweet analizzati nel 2012 che hanno portato alla pubblicazione di un ebook edito dalla rivista Wired e alla creazione di un’app, iHappy, che misura in tempo reale la felicità dell’Italia, regione per regione, città per città. In questo istante gli italiani più contenti sono quelli di Arezzo, i più arrabbiati stanno sulla riva del Lago di Como. Il giorno migliore del 2012 è stato il 16 maggio, sui giornali due notizie: lo scandalo della paghetta di Bossi al figlio e gli appelli per la giornata di mobilitazione contro l’omofobia, il più cupo è il 23 luglio con lo spread che sale a quota 516. A guardarci attraverso la lente di Twitter siamo un popolo di meteopatici: in primavera siamo allegrissimi, con le prime nebbie di autunno non c’è antidepressivo in grado di coccolarci il morale. Martedì e sabato i giorni migliori, il lunedì è un disastro. Inseguiamo i sogni dando calci ad un pallone e così i gol di Balotelli negli ultimi europei fanno felice il social tricolore. Un altro exploit nella notte del 20 dicembre, quella che precede la fine del mondo predetta dai Maya. Il fatto poi che l’indomani, quando tutto è ancora al suo posto, il mercato delle emozioni precipiti a fondo è materia da psiconalisi non da sondaggisti.
La felicità va di moda. Una delle app di maggior successo in questo momento negli Usa di chiama “Happier”. L’ha inventata una ragazza di Boston e serve per isolare nel mare infinito della rete solo le sensazioni positive: «A volte davanti a quella massa infinita di notizie uno è restio a raccontare quello che di bello gli è capitato: ecco, io ho creato un posto dove farlo. Ogni piccolo attimo di gioia merita di essere raccontato, non è mai banale», dice al
New York Times.
E in pochi mesi ha raccolto oltre un milione di tweet felici.
Jonathan Harris è un guru dell’arte 2.0, dal suo studio nel cuore di Brooklyn esporta in giro per il mondo le sue installazioni multimediali. Nel 2006 lancia “We feel fine”, ci sentiamo bene, un sito che setaccia blog e social a caccia delle emozioni della gente: «È un’opera collettiva, voglio mostrare la bellezza, il piacere della vita attimo dopo attimo e la rete in questo momento è come se fosse l’anima del mondo», spiega al Washington Post.
Ma quello che ci racconta lo specchio virtuale del nostro umore non è molto rassicurante: dal 2009 ad oggi l’indice globale della nostra felicità è in ribasso ed è facile dare la colpa alla crisi economica. Non si vedono segni di ripresa, solo qualche picco come quando uccisero Bin Laden e i newyorchesi riempirono le strade di Times Square in festa. Perché poi la felicità non è un cinguettio ma stare insieme alle persone che ami. In una piazza, come davanti ad un bicchiere di vino.
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