La Consulta sul caso Fiom: “Fiat ha limitato la libertà dei sindacati”

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ROMA – Un “vulnus” all’articolo 39 della Costituzione, “per il contrasto che, sul piano negoziale, ne deriva ai valori del pluralismo e della libertà di azione della organizzazione sindacale”. Così la Corte Costituzionale spiega perché, il 3 luglio scorso, decise di dichiarare l’illegittimità dell’articolo 19, primo comma, dello Statuto dei lavoratori, questione sollevata dai tribunali di Modena, Vercelli e Torino, nelle cause che vedono contrapposte la Fiat e la Fiom. Ma non solo. “Nel momento in cui viene meno alla sua funzione di selezione dei soggetti in ragione della loro rappresentatività” e “si trasforma invece in meccanismo di esclusione di un soggetto maggiormente rappresentativo a livello aziendale o comunque significativamente rappresentativo, sì da non potersene giustificare la stessa esclusione dalle trattative, il criterio della sottoscrizione dell’accordo applicato in azienda viene inevitabilmente in collisione con i precetti di cui agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione”.

Lo scrive la Consulta nella sentenza in cui motiva il giudizio di illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, dello Statuto dei lavoratori. L’art. 2 della Costituzione garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali”; l’art. 3 tutela l’uguaglianza dei cittadini; l’art. 39 la libertà di organizzazione sindacale.La Corte Costituzionale, il 3 luglio scorso, aveva dichiarato l’illegittimità dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori nella parte in cui “non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa essere costituita anche nell’ambito di associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell’azienda”. La violazione del principio di uguaglianza rilevata dalla Consulta sta nel fatto che i sindacati, “nell’esercizio della loro funzione di autotutela dell’interesse collettivo, sarebbero privilegiati o discriminati sulla base non già del loro rapporto con i lavoratori, che rimanda al dato oggettivo (e valoriale) della loro rappresentatività – si legge nella sentenza – e, quindi, giustifica la stessa partecipazione alla trattativa, bensì del rapporto con l’azienda, per il rilievo condizionante attribuito al dato contingente di avere prestato il proprio consenso alla conclusione di un contratto con la stessa”.

La Corte, poi, parla di una “forma impropria di sanzione del dissenso”, in violazione dell’articolo 39 della Costituzione “che innegabilmente incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato in ordine alla scelta delle forme di tutela ritenute più appropriate per i suoi rappresentati, mentre, per l’altro verso, sconta il rischio di raggiungere un punto di equilibrio attraverso un illegittimo accordo ‘ad excludendum'”. L’intervento operato dalla Consulta con la sua decisione, si sottolinea nella sentenza, non “individua, e non potrebbe farlo, un criterio selettivo della rappresentatività sindacale ai fini della tutela privilegiata di cui al titolo Terzo dello Statuto dei lavoratori in azienda nel caso di mancanza di un contratto collettivo applicato nell’unità produttiva per carenza di attività negoziale ovvero per impossibilità di pervenire ad un accordo aziendale”.

A una tale evenienza, rilevano i ‘giudici delle leggi’, si può dare risposta con “una molteplicità di soluzioni”, tra cui la “valorizzazione dell’indice di rappresentatività costituito dal numero degli iscritti”, l'”introduzione di un obbligo a trattare con le organizzazioni sindacali che superino una determinata soglia di sbarramento”, “l’attribuzione al requisito previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori del carattere di rinvio generale al sistema contrattuale e non al singolo contratto collettivo applicato nell’unità produttiva vigente”, oppure il “riconoscimento del diritto di ciascun lavoratore ad eleggere rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro”. L’opzione “tra queste od altre soluzioni”, conclude la Corte, “compete al legislatore”.


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