Tra senso di realtà e conflitti evitati la cultura di governo del Papa

by Sergio Segio | 23 Luglio 2013 7:34

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Da antico allievo dei gesuiti ho reagito pensando che tale carenza è improbabile in un gesuita, specialmente se ha percorso una complessa carriera ecclesiale. Mi sono quindi andato a leggere i testi del cardinale Bergoglio in materia sociopolitica, originati dall’evoluzione difficile delle chiese sudamericane. E ne ho colto quattro opzioni «di governo» di notevole spessore ed attualità.
La prima opzione è per un’aderenza semplice e spietata alla realtà, mettendo in secondo piano il valore delle idee, dei progetti e dei programmi. Le idee classificano e definiscono, «la realtà è», questa la frase chiave che fa capire quanto la cultura del Papa sia attenta a stare nella realtà delle cose, nei sorrisi come nelle miserie della gente. Una tensione umana che si coniuga nel profondo alla tensione spirituale convinta che solo mettendo la mano nelle piaghe degli uomini si ha la rivelazione della divinità.
La seconda opzione è il privilegio da dare al tempo rispetto allo spazio, «perché il tempo inizia processi e lo spazio li cristallizza». È il tempo la dimensione in cui avviene la storia mentre lo spazio è la categoria di una politica fatta di articolate e statiche divisioni degli spazi di appartenenza, di potere, di interessi. E non è inverosimile l’impressione di questi mesi che la tecnica di governo del Papa sia orientata a mettere in moto processi, lasciando al tempo la loro evoluzione più o meno controllata e monitorata.
La terza opzione è quella che «l’unità è superiore al conflitto», e che la composizione delle cose va preferita alla segmentazione delle dialettiche sociali. Sorprende una tale sottovalutazione del conflitto proveniente da una esperienza di una cultura ecclesiale, quella sudamericana, famosa per le sue istanze conflittuali; ma il Papa è nettissimo nel dire che il conflitto non risolve i problemi, e che quindi esso va «risolto e trasformato in una catena, in uno sviluppo».
Si capisce facilmente, da queste tre opzioni, quanto sia innovativa la quarta, quella relativa alla cultura di governo. Si capiscono cioè gli orientamenti in termini di modello della governance civile ed ecclesiale, specialmente in rapporto all’attuale globalizzazione (che è fatto reale; è processo, è complessità costante). La sua opzione è chiara: la globalizzazione non si governa con una verticalizzazione piramidale e gerarchica dei poteri (è l’attuale scelta della Chiesa); non si governa con una logica di «sfera» in cui non c’è differenza fra i diversi punti e su cui si può lavorare solo con concertazioni più o meno collegiali (è l’attuale logica degli organismi sovranazionali); ma si governa attraverso un «modello a poliedro, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità». Sembra l’eco di un’attenzione molto moderna al concetto di poliarchia asimmetrica, certamente inattesa nell’esponente più visibile di un potere monarchico.
Chi rilegga le quattro opzioni qui elencate potrà avere dei dubbi sulla loro bontà di fondo, specialmente se ha spirito un po’ conservatore; potrà avere dei dubbi sulla loro percorribilità storica (ci vorrebbe un pontificato ben lungo); potrà avere dei dubbi che siano pensieri così seri a limitare l’empito umano del Pontefice; ma non potrà avere dubbi sul fatto che questo gesuita diventato Papa non è solo «tanto bbono» e sorridente.

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