“Ablyazov è un rifugiato politico” quell’email arrivata da Londra che non fermò la caccia all’uomo
ROMA, MUKHTAR Ablyazov, chi era costui? Una delle poche, disarmanti, ammissioni condivise dal ministro dell’Interno Alfano e dai suoi apparati è stata quella di aver comprato dai kazaki come “pericoloso latitante” chi al contrario era un noto dissidente.
E DI averne avuto coscienza quando ormai era troppo tardi. Epperò, come tutte le ammissioni tardive di questa storia, anche questa si rivela una toppa peggiore del buco. Perché — si scopre ora — anche quando il Viminale ebbe la certezza che Ablyazov era un rifugiato politico, la nostra caccia all’uomo teleguidata da Astana non si fermò. Anzi, riprese.
E per giunta con nuova forza. È l’ennesima verità che illumina la sequenza di mosse sghembe, omissive, contraddittorie con cui — come documentano gli atti allegati alla relazione del Capo della Polizia — dalla mattina del 31 maggio (quando un take dell’Ansa batte in chiaro l’intera storia) al pomeriggio del 12 luglio (giorno in cui viene revocato il decreto di espulsione di Alma Shalabayeva), il ministro dell’Interno, mentre prova disperatamente a evitare che l’affairelo travolga, è in realtà occupato a garantire assoluta lealtà all’amico kazako Nazarbaev.
I fatti.
I SILENZI DEL MINISTRO
Sostiene Alfano che, sollecitato dal ministro degli esteri Emma Bonino, il 2 giugno attivi il nuovo Capo della Polizia per conoscere ad horas quel che, in realtà, lui sa perfettamente essere accaduto (il suo capo di gabinetto Procaccini lo ha informato il 29 maggio), ma che il copione che ha deciso di recitare prevede che ignori. La solerzia partorisce non a caso un topolino. Un appuntino della Questura di Roma datato 3 giugno. Che, nelle intenzioni, dovrebbe chiudere la storia senza neppure farla cominciare. E che, a stretto giro, il 5 giugno, diventa addirittura una presa di posizione del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri: «Le procedure di espulsione di Alma Shalabayeva sono state perfette. Tutto in regola e secondo la legge. Mi sono informata subito della questione, e tutto si è svolto secondo le regole ».
Purtroppo per Alfano, il 4 giugno, la nostra ambasciata a Londra, sollecitata dalla Bonino a verificare lo status di Ablyazov e della sua famiglia nel Regno Unito, accerta che “il pericoloso latitante” e sua moglie Alma Shalabayeva hanno ottenuto asilo politico. Sono due “rifugiati”. Lui, gravato dal divieto di espatrio. Lei, libera di muoversi.
Di entrambe le informazioni — raccolte dalla nostra diplomazia sia per iscritto che de visu a Scotland Yard — viene reso partecipe il Viminale. Il quale, per altro, il 5 giugno riceve un’ulteriore conferma via mail dall’Ufficio Immigrazione Inglese. «Posso confermarti — scrive Satnam Rayit, chief Immigration Officer della polizia inglese, al nostro dirigente dell’Interpol Gennaro Capoluongo — che Mukhtar Ablyazov e sua moglie hanno ricevuto asilo in Inghilterra. Non so se questa informazione sia già nel database dell’Interpol, ma di questa mail ho messo in copia i miei colleghi».
IL VIMINALE NON ARRETRA
Il 5 giugno, dunque, ce ne sarebbe a sufficienza per il ministro dell’Interno Alfano, per il Capo della Polizia Pansa, per Interpol e Questura di fare macchina indietro. Di chiedere conto ai kazaki e all’ineffabile ambasciatore Yelemessov, di casa al Viminale, delle ragioni per cui hanno taciuto chi fosse davvero Ablyazov e comprendere finalmente il perché nella caccia grossa di Astana sia finita la sua intera famiglia, con la sollecitazione alla “deportazione” di Alma Shalabayeva. Ce ne sarebbe a sufficienza per cominciare a ragionare su un provvedimento (la revoca del decreto di espulsione) che invece arriverà solo il 12 luglio.
Ma nulla di tutto questo accade. Peggio. Accade esattamente il contrario.
LE RICERCHE CONTINUE
La nostra Polizia continua ad essere teleguidata da Astana in una caccia all’uomo che non sembra avere requie. In quei
giorni, a quanto pare, e con buona pace delle informazioni raccolte a Londra, Ablyazov è diventata la nostra magnifica ossessione. Altro che “blocco cognitivo”. L’11 giugno, un nuovo cablo dalla capitale kazaka aggiorna infatti a beneficio della nostra Polizia e della Questura di Roma le possibili identità dietro cui Ablyazov proteggerebbe la sua latitanza (un passaporto polacco) sollecitandone nuove ricerche. E la nostra Questura, solerte, chiede il 13 giugno, attraverso i canali Interpol, che in Austria e Kazakistan vengano avviate dalle rispettive polizie immediate indagini patrimoniali su tutte le persone identificate durante l’infruttuoso blitz nella villa di Casal Palocco.
I KAZAKI PADRONI FINO A FINE GIUGNO
Non deve sembrar vero ai kazaki che a Roma, nonostante il pasticcio svelato dagli inglesi il 4 giugno (Ablyazov e la moglie sono rifugiati politici), il nostro Dipartimento di Pubblica Sicurezza continui a
bersi la favoletta del pericoloso latitante. Sempre che qualcuno se la beva e non sia invece costretto semplicemente a obbedire. Al punto da non battere ciglio, il 14 giugno, di fronte all’arrivo da Astana del provvedimento con cui la Corte di Almaty, il 5 marzo 2009, ordina l’arresto di Ablyazov. Un “decreto di cattura” di due paginette, privo di motivazione e indicazione delle fonti di prova e come tale irricevibile in qualsiasi Paese Europeo in cui vigano i principi dello Stato di diritto. Ma, evidentemente, “ineccepibile” per gli amici italiani e il suo ministro dell’Interno. E a cui, non a caso, il 29 giugno fa seguito un ulteriore mossa di Astana. La richiesta “urgente” al Viminale di “elementi di informazione sulle indagini in corso su Ablyazov”, nonché una rogatoria (curiosamente indirizzata al nostro ministero dell’Interno e non a quello di Giustizia) con cui si chiede assistenza nelle indagini su quattro cittadini kazaki e il nullaosta all’arrivo a Roma di personale della “Agenzia anticrimine in economia e corruzione” kazaka.
Altro che vergogna per quanto accaduto. Fino al 29 giugno, al Viminale, non si vergogna proprio nessuno. E sotto la guida politica di un “ministro inconsapevole” la nostra polizia continua ad essere il braccio della caccia grossa scatenata da Astana. Salvo, ora, giustificarsi con un cavillo. «La richiesta di asilo di Mukhtar Ablyazov e sua moglie in Inghilterra non è ancora ufficiale e dunque non era e non è utilizzabile». Già, le carte non stanno a posto. La parola di Astana, dunque, vale più di quella di Londra.
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