Vaticano, Bertone in uscita a settembre Così cambia la mappa del potere

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 Quella che molti aspettano come la nomina più importante del nuovo Pontificato sarà formalizzata probabilmente nei primi giorni di settembre. L’era del cardinale Tarcisio Bertone si chiuderà allora, come approdo di un transizione che papa Francesco ha voluto indolore. Fin troppo, secondo gli avversari del «primo ministro» vaticano. Una parte dell’episcopato ha cercato di spingere per l’allontanamento di Bertone prima. E sperava che nel prossimo viaggio in Brasile, per la Giornata mondiale della gioventù, Jorge Maria Bergoglio fosse affiancato da un nuovo segretario di Stato, perché si desse l’impressione di una svolta tangibile anche in una politica estera vaticana asfittica da anni. Ma Francesco ha consentito a Bertone quest’ultima apparizione al suo fianco. Non tanto perché considera la sua collaborazione insostituibile: l’esautoramento di quello che sotto Benedetto XVI era chiamato malignamente «il vice-Papa» per sottolineare il suo enorme potere, ormai è palpabile. Francesco avrebbe ignorato anche di recente il suo suggerimento di rinviare l’istituzione della commissione di inchiesta sullo Ior.
Una spiegazione della successione al rallentatore è che l’ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires ha preferito aspettare per delicatezza nei confronti di Josef Ratzinger: mettere da parte subito il suo primo collaboratore sarebbe suonato come una critica implicita al precedente Pontificato. Ma forse la vera ragione è che in questi primi mesi il Papa ha voluto capire bene non tanto se la stagione di Bertone fosse chiusa, perché le critiche plateali al segretario di Stato durante le congregazioni prima del Conclave lo avevano già mostrato come bersaglio e capro espiatorio di un malumore montante. Il problema è che tipo di «primo ministro» Bergoglio ha in testa. E qui il quadro si fa più confuso. Che si vada verso un ridimensionamento della carica sembra probabile. La segreteria di Stato vaticana negli ultimi anni è stata lo specchio di un sistema di governo che non funziona più e provoca un accentramento tale da costringere il Papa a sovraesporsi per giustificare e proteggere il suo braccio destro. Almeno, questo è accaduto fra Benedetto XVI e Bertone.
L’istituzione di una sorta di «Consiglio della corona» formato da cardinali di tutto il mondo scelti dal Pontefice argentino, prefigura invece un metodo di lavoro collegiale e insieme una riduzione del profilo del segretario di Stato. Nell’incertezza sulle prossime decisioni di Francesco è filtrata perfino l’ipotesi che voglia fare a meno di un «primo ministro» vaticano; ma è improbabile. La «rosa» di nomi che circolano sul successore di Bertone lascia capire solo che pochi conoscono le vere intenzioni del Pontefice; e che si andrà verso una figura comunque meno ingombrante, con funzioni non tanto «politiche» ma più amministrative. Non è chiaro neppure se la quasi invisibilità del segretario di Stato nelle ultime settimane prefiguri il modello che ha in mente il Papa. Qualcuno dà per certo che sarà un diplomatico e un italiano. «Può darsi, ma con l’aria che tira contro il “partito italiano” non lo darei per scontato», ammette un cardinale, confermando che il dopo-Conclave segna non solo un indebolimento di Bertone ma una certa difficoltà di una parte della Cei a sintonizzarsi con il Papa argentino. D’altronde, i paradigmi e gli equilibri geopolitici del passato sono saltati.
Lo smantellamento progressivo ma inesorabile dei rituali della Curia e l’affiancamento di commissioni papali ad hoc alle attuali strutture finanziare vaticane dà corpo a una «strategia dell’accerchiamento» che prepara il terreno sul quale costruire il nuovo modello di governo; e sottolinea quanto non ha funzionato finora. È un’opera di demolizione simbolica di vecchie abitudini e strutture, che serve anche a misurare le resistenze delle lobby ecclesiastiche ed economiche più radicate: quelle che hanno contribuito a spingere Benedetto XVI alle dimissioni nel febbraio scorso; e che tuttora oscillano fra paura e voglia di resistere per sopravvivere. Si racconta che nelle anticamere dei palazzo vaticani, mentre il Papa riceve i suoi ospiti importanti, i monsignori della Curia scherzano davanti a tutti con toni agrodolci su dove verranno «esiliati» nei prossimi mesi. Prima, il 15 giugno, la nomina del «prelato» dello Ior, Battista Ricca. Poi la creazione della commissione di inchiesta sull’Istituto per le opere di religione; e tre giorni fa quella dell’organismo chiamato a controllare i costi di tutte le attività economiche della Santa Sede. L’escalation è vistosa, in appena un mese. Anche se lo scandalo sulle abitudini private di monsignor Ricca sta diventando il pretesto al quale la vecchia guardia cercherà di appigliarsi per contestare i metodi solitari con i quali Bergoglio sceglie i collaboratori.
Ma difficilmente l’incidente, per quanto fastidioso, bloccherà la rivoluzione in atto. Tutti i vertici dello Ior, del passato e del presente, sono chiamati a sfilare davanti alla commissione d’inchiesta presieduta dal cardinale Raffaele Farina per riferire sulle attività dell’Istituto: non solo dunque Ernst von Freyberg, l’attuale presidente, ma anche i predecessori Ettore Gotti Tedeschi e Angelo Caloja. E con loro gli ex direttori. Le accuse della magistratura italiana contro Paolo Cipriani e Massimo Tulli, il direttore dell’Istituto e il suo vice, costretti alle dimissioni il 1° luglio, evocano zone oscure da chiarire prima che arrivino altri scandali. Continua a aleggiare il sospetto che esistano «conti in affitto» offerti a persone o società con grandi disponibilità di denaro per svolgere operazioni finanziarie protette in cambio di corposi contributi. L’arresto, il 28 giugno scorso, di monsignor Nunzio Scarano promette altre rivelazioni imbarazzanti sulla spregiudicatezza almeno di alcuni fra quanti maneggiano soldi in Vaticano. Il prelato salernitano, coinvolto nel tentativo di far rientrare in Italia 20 milioni di euro dalla Svizzera, pochi giorni fa avrebbe fatto consegnare alla Procura di Roma dei documenti sulle attività dell’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica, dove ha lavorato per ventidue anni.
Gira voce che ancora poche settimane fa alcune persone definite «vicine allo Ior» avrebbero contattato i vertici italiani di una banca estera per valutare la possibilità di compiere alcune transazioni. Non se n’è fatto nulla perché gli interlocutori hanno chiesto garanzie e condizioni che gli emissari dell’Istituto non era in grado di offrire. Ma, se è vero, l’episodio conferma il motivo della determinazione del Papa a andare fino in fondo. Qualche spunto interessante sulla possibile riforma dello Ior è stato offerto qualche giorno fa da Pellegrino Capaldo, professore emerito di Economia aziendale alla Sapienza, tradizionalmente vicino alla Santa Sede; e rispettato e ascoltato per avere sempre offerto al Vaticano aiuto e consigli. Fra l’altro, nel 1982 fu uno dei tre membri di nomina vaticana (affiancati dai tre scelti da Palazzo Chigi) della commissione mista fra Italia e Santa Sede incaricata di ricostruire la verità nella vicenda oscura dei rapporti fra il banchiere Roberto Calvi e lo Ior. Partecipando recentemente a un dibattito, Capaldo ha sostenuto che lo Ior deve tornare alle origini, eliminando le anomalie e le deviazioni che si sono manifestate negli anni.
L’idea è di trasformarlo in modo da rendere chiaro che non è una banca. Per riuscirci andrebbero vietate esplicitamente le operazioni che la fanno apparire tale. L’alternativa, secondo Capaldo, è lo scioglimento dello Ior e la costituzione di un nuovo organismo al quale affidare compiti limitati alle «opere di religione». L’economista opta per la prima soluzione, però. Lo scioglimento, a suo avviso, è sconsigliabile perché marcherebbe in modo netto la discontinuità col passato ma avrebbe come controindicazione una valutazione tutt’altro che benevola del modo di operare della Chiesa nel passato. Non si tratta di un’analisi eterodossa. Sembra di ascoltare gli echi della discussione in atto nelle sacre stanze. Quando Capaldo esprime la convinzione che il Vaticano non ha bisogno di una banca, viene in mente papa Francesco che in un’omelia del 24 aprile avvertì: «Lo Ior è necessario ma fino a un certo punto». E le sue critiche alla gestione non suonano più dure di quelle fatte dal Pontefice ripetutamente. Adesso si aspetta che le istituzioni finanziarie internazionali certifichino la trasparenza nel modo di operare del Vaticano. Fra cinque mesi arriverà il rapporto di Moneyval, l’organismo del Consiglio d’Europa chiamato a giudicare sulle virtù o i difetti degli Stati in materia di riciclaggio di denaro sporco e di finanziamento del terrorismo.
Ma secondo il professor Capaldo, più che discutere di white o black list forse sarebbe stato meglio vietare a tutte le amministrazioni della Santa Sede, e in particolare allo Ior, di compiere certi tipi di operazioni. Non è stato un bello spettacolo, ha detto Capaldo, vedere il Vaticano che negozia al ribasso gli standard di trasparenza. Il punto d’arrivo, tuttavia, rimane indefinito. Papa Francesco ha l’aria di un ingegnere al quale è stato affidato il compito di demolire gli abusi edilizi commessi per anni, impunemente, su uno splendido edificio. Finora ha picconato, e già si intravede qualche maceria fra le nuvole di polvere. Eppure, che cosa verrà fuori alla fine è indecifrabile. La planimetria della Chiesa di Bergoglio è nascosta dai rumori e dagli scricchiolii di un cantiere in attività febbrile. Ma probabilmente, nella testa del Pontefice e in quella almeno di alcuni dei suoi grandi elettori all’ultimo Conclave, è pronta da tempo. E subito dopo l’estate rivelerà contorni e strutture che, viste le premesse, saranno sorprendenti e, forse, perfino traumatiche.


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