Come è facile abituarsi a vivere sotto sorveglianza

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Prima dimostrazione: le forze dell’ordine stanno predisponendo banche dati contenenti il Dna di comuni cittadini. Come società noi abbiamo accettato la prova del Dna e la riteniamo uno strumento affidabile sia per assicurare i colpevoli alla giustizia sia per scagionare chi è stato erroneamente accusato. Ma siamo sicuri di volere che la polizia abbia licenza assoluta, e quindi, per dire, possa prelevare campioni del nostro Dna furtivamente, o raccogliere quello di persone non accusate di aver agito contro la legge?

Seconda dimostrazione. L’anno scorso New York ha siglato un accordo con Microsoft per introdurre un sistema che collega tremila telecamere collocate intorno alla città, consentendo alla polizia di predisporre database con dati incrociati riconducibili a automobili rubate, delinquenti ricercati e sospetti terroristi. Ma chi controlla i controllori?
Terza dimostrazione: le regole per l’impiego di droni spia nello spazio aereo americano entro il 2015. È facile immaginare il valore di questa imminente frontiera della sorveglianza: si potrà vigilare sugli incendi, inseguire i fuggitivi armati, condurre operazioni di soccorso. Ma qual è il punto oltre il quale non dovranno ficcare il naso? Il giardino di casa?
E poi c’è internet. A quanto pare siamo abbastanza tranquilli, quasi concilianti, nei confronti dello sfruttamento dei nostri dati personali a fini commerciali, clinici e scientifici — sia banali quanto l’algoritmo pubblicitario che ci propina di continuo attrezzatura da campeggio perché abbiamo cercato in Rete informazioni su un’escursione in una riserva naturale, sia preziosi quanto il sistema di condivisione digitale delle informazioni che
serve ai nostri medici per sapere quali farmaci assumiamo. Certo, cediamo queste informazioni di nostra volontà. ma in realtà la maggior parte di noi lo fa senza accorgersene. Non prestiamo granché attenzione ai moduli della privacy che firmiamo o alle “condizioni di servizio” stampate in caratteri minuscoli. Le due password più comuni, del resto, sono “password” e “123456”. Ma il rischio — così mi sembra — non è neppure la sorveglianza in sé. Abbiamo già deciso, molti di noi, che una vita interconnessa comporta una certa quantità di intrusioni. Il vero pericolo è l’assenza di una regolamentazione rigorosa e indipendente, e di una sorveglianza vigile per evitare che i potenziali abusi di potere diventino una minaccia concreta alla nostra libertà. Non penso che stiamo scivolando verso uno stato di polizia, ma che se saremo troppo arrendevoli circa le nostre libertà civili un giorno potremmo svegliarci e accorgerci che sono sparite. Non per un improvviso attentato terroristico, ma per una graduale e crescente arrendevolezza.
(L’autore è stato direttore del New York Times) © 2013, The New York Times Traduzione Anna Bissanti


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