by Sergio Segio | 20 Luglio 2013 7:20
«È IN viaggio per tornare negli Stati Uniti», si limita a dichiarare a Washington la signora Marie Harf, portavoce del Dipartimento di Stato. Il caso è chiuso, per la diplomazia americana e la Casa Bianca. Chiuso, con uno schiaffo all’Italia. A tornare felicemente a casa sua, indisturbato e sottratto alla richiesta d’estradizione, è Robert Seldon Lady, l’ex capocentro Cia di Milano condannato a 9 anni per la «extraordinary rendition» di Abu Omar. Fermato a Panama e inseguito da un mandato di cattura internazionale dall’Italia, Lady l’ha fatta franca. Il rilascio di Lady da parte delle autorità panamensi sarebbe stato deciso proprio per «evitare la possibilità che venga estradato verso l’Italia».
LO SOSTIENE il Washington Post, il primo ad avere dato la notizia. Si tratta dunque di uno sgarbo in piena regola: gli Stati Uniti si sono interposti, per impedire che (sia pure in tempi lunghi) l’agente della Cia potesse venire consegnato alla giustizia di un paese alleato, l’Italia, membro della Nato. Il
Washington Post, con un “understatement”, osserva che non sono noti i mezzi con cui gli Usa abbiano ottenuto il rilascio e la consegna di Lady. Ma le cronache recenti del Datagate e dell’affaire Snowden hanno ampiamente dimostrato quali siano i mezzi di pressione che Washington è pronta a usare; e quanto siano efficaci, perfino quando i destinatari sono governi antiamericani. Per il Dipartimento di Stato, dopo la succinta dichiarazione della portavoce di John Kerry, il “caso Lady” non esiste neppure. Ordinaria amministrazione. La ragione di Stato, che esiste in ogni paese, è tanto più forte quando si sovrappone ad una mentalità imperiale. Qualunque sia il presidente degli Stati Uniti del momento, conservatore o progressista, sarebbe giudicato come un debole e un traditore degli interessi nazionali, se consegnasse “uno dei suoi” — in particolare un soldato o un agente dei servizi — ad un tribunale straniero, o a un carcere all’estero.
Le umiliazioni inflitte agli alleati non sono rare. L’Italia vi è abituata. Tra i precedenti forse il più tragico fu la strage del Cermis nel 1988. Venti morti, per i giochi spericolati di un Top Gun o Rambo dei cieli, il pilota americano Richard Ashby, decollato dalla base di Aviano, che nelle sue folli giravolte trancio’ una funivia. Inflessibile, il presidente democratico Bill Clinton non esitò ad applicare verso un governo amico (Romano Prodi) la Convenzione internazionale sullo statuto militare Nato che garantisce che un militare Usa sia giudicato solo dai “suoi”.
Un altro caso grave fu l’uccisione di Nicola Calipari, agente segreto italiano, da parte dei soldati Usa in Iraq nel 2005 nelle fasi successive alla liberazione della giornalista Giuliana Sgrena.
Un episodio di segno diverso, uno dei rarissimi casi in cui fu l’Italia a tenere testa alla superpotenza americana, avvenne nella base di Sigonella nel 1985. A Palazzo Chigi c’era Bettino Craxi, alla Casa Bianca Ronald Reagan. Un aereo egiziano con a bordo il terrorista palestinese Abu Abbas fu dirottato dai caccia della U.S. Navy e costretto ad atterrare a Sigonella. Craxi ordinò agli avieri italiani, con rinforzo di carabinieri, di opporsi al rapimento di Abu Abbas da parte di un commando americano della Delta Force. Ne seguì una lunga crisi nei rapporti Washington-Roma. Un’eccezione, comunque.
Non sempre, non verso tutti, l’America si comporta con identica prepotenza. Anche se prevale l’interesse nazionale — e la regola suprema che impone la protezione dei propri militari e agenti segreti — un presidente e il suo segretario di Stato hanno qualche flessibilità nel trattare con gli altri governi. In questa fase l’Italia non gode di una credibilità tra le più elevate. Vicende così diverse come “l’affaire kazako” e il processo per la Costa Concordia, contribuiscono a sedimentare nell’opinione pubblica e nella classe dirigente americana l’immagine di un paese dalle istituzioni poco affidabili. Visto con gli occhi di Washington, un paese dove la polizia prende ordini dall’ambasciatore del Kazakhstan, non è certo in grado di incutere timore al Dipartimento di Stato Usa. Non sono cose che la portavoce Marie Harf può dire, né le dirà il consigliere strategico di Barack Obama Ben Rhodes; sono considerazioni
che “fanno da backgorund”, da sfondo, quando si valutano costi e benefici, vantaggi e rischi di uno schiaffo ad un alleato. La Costa Concordia c’entra egualmente, più di quanto si creda: per l’immensa copertura che il processo ha sui media Usa, e l’immagine di lentezza e inaffidabilità della giustizia italiana che viene rafforzata da queste cronache.
Non siamo gli unici, certo, a ingoiare umiliazioni. Il presidente della Bolivia è stato dirottato e quasi sequestrato, solo perché Washington ebbe il sospetto che stesse trasportando Edward Snowden sul suo aereo.
Quando l’America gonfia i muscoli, perfino Vladimir Putin e Xi Jinping sono indotti a cautela: il presidente cinese ha spinto Snowden a lasciare Hong Kong, quello russo ha molte riserve sull’asilo politico. Anche in una fase di declino, la logica imperiale continua a far sì che per gli Stati Uniti esistano “regole diverse” da tutti gli altri. Salvo che la logica imperiale sia temperata dal rispetto. Guarda caso, l’unico leader straniero al quale Obama abbia rivolto sentite scuse per il Datagate, offrendo ampie spiegazioni e collaborazione, è stata la cancelliera tedesca Angela Merkel.
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