Un fondo speciale per le società quotate, l’ipotesi di un bond legato al patrimonio
ROMA — Ammonta a 100-130 miliardi, il valore della privatizzazione della trentina di asset societari detenuti dal Tesoro e realmente immettibili sul mercato. Sempre che il ministero dell’Economia (Mef) intenda realmente venderli. Il dubbio viene ascoltando le precisazioni del Mef riguardo alle dichiarazioni fatte dal ministro Fabrizio Saccomanni a Bloomberg , in particolare quando si spiega che tra le idee da valutare in futuro, c’è anche l’ipotesi di utilizzare le partecipazioni come «collaterale per operazioni finanziarie».
Cosa significa? Che difficilmente saranno vendute le partecipazioni in società quotate «profittevoli che forniscono dividendi», come Eni (30,3% la partecipazione del Tesoro), Enel (31,24%) e Finmeccanica (32,4%). E non solo perché quelle strategiche sono vincolate dalla golden share che scatta indipendentemente dalla quota posseduta.
Usare queste quote come «collaterali per operazioni finanziarie» significa farle confluire in un fondo che emette obbligazioni, magari insieme a alcuni immobili che farebbero da garanzia: un meccanismo simile a quello della nota proposta Salerno-Monorchio. Una simile operazione consentirebbe allo Stato di mantenere le partecipazioni più interessanti, non perdere il dividendo e abbattere una quota del debito pubblico.
Ma non sarebbe una privatizzazione, come fa notare Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni che fornisce anche la stima sulla vendita degli asset principali. Per Stagnaro l’effetto sulla crescita delle privatizzazioni vale se «consistono nella cessione delle aziende pubbliche a soggetti autenticamente privati, escludendo cioè intermediari pubblici come i fondi esistenti o da creare di cui si è talvolta parlato».
I governi degli ultimi anni hanno provato più volte a lanciare programmi di dismissione del patrimonio pubblico, con esiti il più delle volte deludenti. Niente a che vedere con l’ondata che tra il 1994 e il 2010, secondo l’ultima relazione al Parlamento sulle privatizzazioni del Mef, ha fatto entrare nelle casse dello Stato circa 95 miliardi. Nel 2012 l’esecutivo di Mario Monti ha venduto alla Cassa depositi e prestiti, che è fuori dal perimetro della pubblica amministrazione, le controllate Sace, Fintecna e Simest per un importo di 8,7 miliardi. L’operazione ha consentito di ridurre il debito di circa 2,61 miliardi e rimborsare alle imprese fornitrici della pubblica amministrazione 6,09 miliardi.
Ora il Tesoro ci riprova a abbattere il debito dismettendo, anche perché dal 2015 il «Fiscal compact» renderà più rigida la gestione del bilancio. Nel Documento di economia e finanza (Def) i proventi da privatizzazione vengono stimati in circa un punto percentuale di Pil all’anno tra 2013 e 2017. Anche se per quest’anno Saccomanni ha già chiarito che «l’importo risulterà modesto».
Un piano vero e proprio il Tesoro non lo ha ancora, ma quello che si può anticipare è che alcuni asset come la Rai difficilmente rientreranno nell’operazione per il vespaio politico che solleverebbero. Altre, come Enav, Gse, Consip, Enac, per loro natura non sono privatizzabili. Altre ancora, come Poste e Ferrovie, sono vendibili, a patto per quest’ultima che si metta mano preventivamente a una riorganizzazione, separando la società della rete (Rfi) da quella operativa (Trenitalia), immettendo la prima in una «società delle reti» e privatizzando l’altra.
Il destino delle società in perdita infine non può che essere la liquidazione con la vendita separata degli asset. Nel perimetro dell’operazione «abbattimento del debito» rientrano solo indirettamente le società detenute dagli enti locali, ma in questo caso i tempi si allungano.
Antonella Baccaro
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