Il tempo degli ultimi, eredità futura

Loading

Beato Angelico, in un’opera conservata nel convento di San Marco a Firenze, si concentra sulla figura terrena del Figlio di Dio: l’unico richiamo al cielo è nella mano destra indicante l’alto e, allo stesso tempo, quel suo gesto attira l’attenzione degli ascoltatori. I discepoli lo circondano quasi fossero gli adepti di un filosofo greco. Anzi, l’artista li dipinge di spalle, in modo che essi stessi osservino la scena: in questo egli rende discepolo anche chi guarderà la sua opera nei secoli a venire, violando le regole dello spazio e del tempo. Il paesaggio è roccioso. L’affresco è dedicato al sermone della montagna, quando Gesù parla delle beatitudini.
Probabilmente il Beato Angelico toccò il vero con quelle figure, giacché tutti coloro che vedranno la sua opera non riusciranno più a dimenticarla. Per esempio, il danese Carl Heinrich Bloch cercò anch’egli una soluzione per dar forma alle parole del sermone — attendeva ai dipinti della Cappella del Castello di Frederiksborg, tra il 1865 e il 1879 — ma non riuscì a far altro che riprendere quel modello aggiungendovi una gestualità più solenne, coinvolgendo gli ascoltatori sino a offrire a taluni presenti volti estasiati.
Nella realtà, se si dovesse fissare geograficamente il luogo dove avvenne il celebre discorso, si potrebbe ricordare la zona di Tabqa (epta pegon, sette fonti) a circa due chilometri da Cafarnao. È ricca d’acqua, verdeggiante; è desertica e bella al tempo stesso. I testi che parlano dell’avvenimento si trovano in due vangeli: in Matteo (5,1-12) e Luca (6,20-23). Nel primo la scena è rappresentata su un’altura: «Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli»; nel secondo si ricorda che Gesù «si fermò in un luogo pianeggiante» e che «c’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone». Le due indicazioni non mutano tuttavia le coordinate geografiche: il Signore può aver parlato su un colle o in mezzo a quell’oasi, ma entrambe le esposizioni — osserva un biblista come Gianantonio Borgonovo — «risalgono quasi sicuramente a una tradizione che localizzava in quell’ambiente la caratteristica predicazione di Gesù in Galilea». E aggiunge: «Le parole di Gesù esprimono la riuscita dell’esistenza di colui che vive secondo la Torah: è un’idea presente nei Salmi. Il Figlio di Dio la riprende e la applica alla figura del discepolo».
Osservazioni, queste ultime, che ci aiutano a comprendere la distanza tra il messaggio evangelico e la cultura del tempo. Matteo mette in evidenza che sono beati «i poveri in spirito», «gli afflitti», «i miti», coloro «che hanno fame e sete della giustizia», «i misericordiosi», «i puri di cuore», «gli operatori di pace», «i perseguitati per causa della giustizia». Aggiunge nella parte finale: «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia». Di contro, per il pensiero antico la beatitudine è il sommo bene che soddisfa adeguatamente la nostra volontà. Varrone, riprendendo le dottrine platoniche e aristoteliche, annovera più di trecento soluzioni per identificare questo stato, il medesimo che per i maestri greci cresciuti sotto l’Acropoli di Atene andava coniugato con la felicità. Non a caso Platone sosteneva che essa si può trovare solo nella contemplazione della suprema idea, quella del bene; per questo noi la troveremo nell’altra vita (Aristotele non sarà d’accordo e dirà che la vera beatitudine è solo di questa nostra esistenza). Ma, per tornare al testo evangelico, Luca offre alcune varianti. Dopo aver ricordato che «tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che sanava tutti», sono ricordati «i poveri», «voi che ora avete fame», «voi che ora piangete», «voi quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e v’insulteranno e respingeranno il vostro nome come scellerato, a causa del Figlio dell’uomo». Dopo di che le beatitudini lasciano spazio — dal versetto 24 del capitolo 6 — agli ammonimenti, che cominciano con queste parole: «Ma guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione». Il versetto 27 allarga ulteriormente il discorso, chiudendo anche i ricordati ammonimenti: «Ma a voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano».
La differenza tra i due vangeli, oltre che per il numero delle beatitudini, va cercata nel fatto che Luca interpreta sia l’aspetto positivo che il negativo, ovvero quello di coloro che non seguono lo stile gesuanico; Matteo, invece, ne sceglie uno assoluto che sottolinea il rapporto con i discepoli, in quel momento davanti al Signore. Aggiungiamo che Matteo elenca otto beatitudini più una, Luca quattro (e altri quattro ammonimenti). Va altresì ricordato che la prima di Matteo, ovvero «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5,3), ha fatto scrivere a taluni Padri della Chiesa — per esempio a Tertulliano in Adversus Marcionem — che in essa sono racchiuse tutte le altre. Ma qui si apre una vasta letteratura. Sant’Ambrogio, per fare un altro esempio, nella sua Esposizione del Vangelo di Luca riallaccia le quattro beatitudini di questo testo alle quattro virtù cardinali; Bernardo di Clairvaux in un suo sermone per la festa d’Ognissanti vede nelle beatitudini di Matteo altrettante virtù, disposte in gradazione non gerarchica ma cronologica rispetto all’esperienza ascetica dei monaci. In tal caso la volontaria paupertatis vilitas è rimedio alla superbia, la mansuetudine o obbedienza sana dalla ribellione del peccato e così di seguito. È difficile seguire gli infiniti influssi delle parole di Gesù, perché si dovrebbe passare dalla Divina Commedia ai grandi romanzi che hanno fatto la letteratura, da filosofi come Pascal a mistici come Meister Eckhart. Dostoevskij nei Demoni, scrivendo che «gli uomini sono cattivi perché non si accorgono di essere buoni», ha forse ripensato taluni temi delle beatitudini. Ma più di ogni altro argomento è stata la povertà a far riflettere. Santa Teresa di Gesù ha scritto ne La via della perfezione che «i veri poveri non fanno rumore». Anche se le parole del Cristo continuano a urlare nelle coscienze.


Related Articles

Un apostolato meridionalista

Loading

Nel Sud, nel pensiero dell’intellettuale calabrese, è centrale il «codice materno», intriso della capacità  di capire, prima che di giudicare

La buona migrazione di Alfabeta verso il Web

Loading

Riviste. Ultimo numero cartaceo di Alfabeta, che emigra e scommette sulla Rete

La crescita che porta alla rovina

Loading

SAGGI «Limite» di Serge Latouche per Bollati Boringhieri 
Marx, all’interno dei «Grundrisse» afferma che per il capitale «ogni limite si presenta come un ostacolo da superare». Ebbene, nell’epoca della globalizzazione neocapitalista, e della sua crisi, questa tendenza sembra aver toccato il suo massimo livello.

No comments

Write a comment
No Comments Yet! You can be first to comment this post!

Write a Comment