La ricerca perduta delle università

by Sergio Segio | 17 Luglio 2013 9:08

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La differenze nell’ambito della stessa disciplina sono macroscopiche: il 20 per cento di istituzioni migliori ha, come nel caso dell’ingegneria industriale, punteggi fino a 46 volte superiori a quelli del 20 per cento di istituzioni peggiori. I livelli medi sono abbassati dalla presenza di uno zoccolo di persone che non fanno ricerca al di sopra di standard minimi, il che significa che ci sono ampi margini di miglioramento nel turnover del corpo accademico. Questi i principali rilievi che vengono ad una prima lettura dell’enorme mole di dati prodotta nell’ambito della valutazione della qualità della ricerca, (Vqr), presentata ieri a Roma, un’impresa titanica completata, cosa rara in Italia, nei tempi prefissati. Nel giro di un anno e mezzo sono stati valutati più di 180.000 lavori di ricerca da parte di circa 15.000 revisori, un terzo dei quali stranieri.
Preoccupa la quota di docenti totalmente o parzialmente inattivi nella ricerca. Non saranno tutti dei fannulloni: probabilmente molti di loro insegnano e alcuni hanno magari funzioni manageriali all’interno dell’università e forniscono servizi a chi la ricerca la fa davvero. Ma anche se così fosse, questi incarichi non dovrebbero mai allontanarli del tutto dalla ricerca. Dovrebbero essere occupati a rotazione, imponendo termini veri e non solo sulla carta ai mandati, anziché essere gestiti come posizioni di potere. Dato che il capitale umano si deprezza rapidamente, anche chi ha incarichi gestionali dovrebbe, nel limite del possibile, continuare a studiare e produrre ricerca. Quel 7 per cento di docenti universitari che non ha pubblicato un saggio degno di questo nome (o depositato un brevetto) che sia uno nel giro di 7 anni, oppure che ha presentato meno lavori di quelli potenzialmente ammessi alla valutazione, non dovrebbe perciò proprio esistere nell’università italiana. In alcuni dipartimenti (del Cnr, di Napoli Orientale e della Cattolica a Milano) si arriva oltre al 30 per cento di inattivi, un’enormità. Forse il merito maggiore della Vqr è stato proprio quello di far uscire allo scoperto questa massa di persone che nell’università italiana non danno alcun contributo di qualità alla ricerca. È un lusso che non ci possiamo permettere.
Oggi l’università pubblica italiana è alla canna del gas. Ha assistito impotente ad una costante riduzione dei fondi ad essa destinati. In termini nominali, il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo), quello che serve a pagare il personale delle università pubbliche, ha perso quasi un miliardo dal 2009 al 2013, un calo di più del 10 per cento rispetto alla dotazione iniziale. La ricerca universitaria è messa ancora peggio, forse perché viene considerata un “bene di lusso”, il termine utilizzato da De Gasperi per giustificare le altre priorità dello Stato italiano nel Dopoguerra, anziché un investimento strategico. Basti pensare che l’ultimo bando per i Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale (Prin), il principale programma italiano di finanziamento della ricerca di base, distribuirà in tutto 39 milioni, a fronte dei 175 del bando precedente. Per dare un’idea di cosa significhi questa cifra, basti pensare che un finanziamento dello European Research Council per un singolo progetto-ricercatore mediamente vale più un milione e mezzo di euro. Come dire che coi soldi del Prin si possono finanziare meno di 26 progetti di ricerca in tutta l’università italiana!
Eppure, alla luce dei dati raccolti dalla Vqr, le generiche e reiterate richieste di fondi da parte dei Rettori appaiono immotivate, se non accompagnate da un deciso cambiamento di rotta. Per rivitalizzare la ricerca in Italia, ci deve essere un processo di distruzione creativa, che sostenga i punti di eccellenza, cerchi di offrire opportunità di miglioramento alle realtà che si sforzano di avvicinarsi alle frontiere della ricerca e invece condanni ad essere università di puro insegnamento le realtà in cui per anni, coerentemente, si è scelto solo la strada di perpetuare le gerarchie accademiche nel corso del tempo, a carico dei contribuenti e sulla pelle degli studenti.
Perché questa distruzione creativa abbia luogo bisogna affidarsi agli incentivi. I controlli dal centro sono del tutto controproducenti perché creano solo burocrazia e regole destinate ad essere aggirate ancor prima di entrare in vigore. I
fondi del Ffo dovrebbero essere destinati alle varie unità proprio in base ai risultati della Vqr, come avviene in Inghilterra nell’ambito del Research Evaluation Framework (Ref). Se così fosse, ecco che tutte le università, per sopravvivere, si sforzerebbero di migliorare la qualità media della ricerca, un obiettivo, come si è detto, tutt’altro che irraggiungibile. Bene dunque ha fatto ieri il ministro Carrozza a sostenere che il Vqr verrà utilizzato con questa finalità, non rimarrà lettera morta come la precedente valutazione. Il meccanismo per legare i finanziamenti ai risultati nella ricerca è ormai avviato. La valutazione ha mostrato, tra l’altro, che gli indicatori che contano e pesano le pubblicazioni in base al loro impatto sulla comunità scientifica, sono coerenti con i giudizi più qualitativi offerti dai revisori esterni. Quindi in futuro, anche per ridurre i tempi e i costi delle valutazioni, ci si potrà basare maggiormente su indicatori bibliometrici. Legando finanziamenti a risultati, potremo un domani fare a meno di un ministero dell’Università e avere invece un ministero più piccolo, interamente dedicato alla ricerca, non solo accademica.
Ma non basterà a cambiare davvero l’università italiana l’attribuzione in base al merito di una modesta quota del Ffo (il 7% o ancora meno, data la presenza di clausole di salvaguardia). Anche se servisse a qualcosa, i miglioramenti sarebbero comunque troppo lenti per allontanare il nostro paese dal declino cui sembra oggi inesorabilmente destinato. Ci vuole molto più coraggio, con una quota che parta dal 30 per cento per arrivare fino al 50 per cento dei finanziamenti all’università attribuita in base ai risultati della valutazione della ricerca. Un meccanismo di questo tipo spingerebbe gli atenei ad accelerare il ricambio in un corpo docente, che continua a invecchiare e in cui c’è una netta cesura generazionale nei profili di ricerca: in molti casi solo chi appartiene alle giovani generazioni svolge ricerca di qualità. Le istituzioni ormai lontane anni luce dalla frontiera della ricerca dovranno invece convertirsi a università di puro insegnamento, magari a stretto contatto con le imprese, nell’ambito di quella formazione tecnica avanzata, post-secondaria, di cui tanto abbiamo bisogno per ridurre la disoccupazione giovanile.
L’università italiana ha grandi responsabilità nei limiti della nostra classe dirigente. Ad esempio, i punteggi mediamente bassi dei nostri dipartimenti di management (la metà di quelli di economia) contribuiscono a spiegare i ritardi della nostra classe manageriale. Anche per questo non possiamo rassegnarci a questa università. Le sue contraddizioni, le distanze cosmiche che separano tra di loro i diversi atenei e i diversi dipartimenti al loro interno ci dicono che valorizzando ciò che c’è di buono possiamo fare grandissimi passi in avanti, senza dover impegnare anche un solo euro in più. Bene che il governo pensi ad altre scuse dei vincoli di bilancio se non vuole approfittare di questa occasione per cambiare davvero l’università italiana.

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