ULRICH BECK: “CI SALVERÀ LA GENERAZIONE DEI GIOVANI COLOMBO”
Da che parte, a chi guardare per ritrovare la strada della Sinistra, variamente smarrita un po’ in tutto il mondo? Ulrich Beck, il sociologo della “società del rischio”, è da tempo convinto che ogni risposta nazionale ai problemi globali sia destinata a fallire. Vale anche in questo caso. Più che una cassetta degli attrezzi per riparare i partiti progressisti offre un campionario di pratiche, una serie di istantanee da una realtà che sta cambiando più in fretta delle imbolsite élite politiche. Dalla Primavera araba a quella che ha battezzato la Generazione dei Nuovi Colombo, dall’uso strategico delle catastrofi alle “New York svizzere”, scorge embrioni di una nuova Sinistra post-ideologica, giovane, ambientalista, altamente connessa. Ultima speranza per rivitalizzare quella perdente dei padri.
Professore, cosa significa “sinistra” nell’estate del 2013?
«Dieci anni fa le avrei risposto che eravamo oltre destra e sinistra. Oggi non ne sono più così sicuro. Nel mondo sono successe così tante cose che credevamo inimmaginabili. Credo che ci sia bisogno di reimparare, reinventare la metafora della sinistra. Abbiamo anche bisogno di un nuovo linguaggio, una nuova fenomenologia di cosa sono oggi destra e sinistra».
Quali valori ha in mente?
«Purtroppo è più facile definirli in negativo che in positivo. Ma proverò. Per cominciare, al posto della solidarietà di classe è subentrato un “individualismo morale”, ovvero un individualismo che, grazie al senso di connessione che ci danno le nuove tecnologie, si sente responsabile per gli altri, una volta percepiti come distanti. Un nuovo individualismo che presuppone una dimensione cosmopolita. Poi un’attenzione ai problemi globali, ma in un modo molto locale e personale, ben diverso dall’agenda degli stati-nazione. Un esempio lampante è quello dell’ambiente, in cima alle preoccupazioni dei giovani di ogni paese. E infine la reinvenzione dello stato sociale su una base transnazionale, nel nostro caso europea. Solo così si possono dare risposte all’insicurezza economica, e quindi esistenziale, delle nuove generazioni. Nessuna sinistra può dirsi tale senza farsi carico di questi punti».
Di recente si è occupato molto dei movimenti di protesta globali: è lì che bisogna cercare le tracce della nuova sinistra?
«Di certo si può dire che molte persone sono sempre più deluse dalla politica degli stati-nazione, quella che si preoccupa delle élite economiche. Ed è da questa delusione che sta nascendo una reinvenzione dei valori di sinistra. Dalla Primavera araba a Istanbul e a Rio, e ora di nuovo al Cairo, la vera posta in gioco è ripensare la natura stessa dello Stato. Un paragone è impossibile, tuttavia vedo caratteristiche comuni. Intanto, ognuna di queste ribellioni non sarebbe stata possibile senza i social media. E poi sembra più importante il dissenso in sé e l’esperienza di essere coinvolti nella protesta rispetto a richieste specifiche. Infine ritorna il tema della disfunzionalità della politica e delle sue élite ».
Lei sta parlando di movimenti che potremmo definire in senso lato di sinistra. I partiti però non sono un’altra cosa?
«Certo. È nella natura della protesta che la gente voglia soprattutto il cambiamento. Ma le cose da cambiare sono così tante che serviranno decenni. Nel frattempo sia i partiti di destra che di sinistra si trasformeranno o scompariranno. In sempre più paesi le proteste potranno divampare e poi spegnersi. Il peggior populismo e la destra più estrema potranno prosperare. E la socialdemocrazia potrà passare un lungo periodo in ritirata».
Non esattamente un scenario tranquillizzante.
Ma torniamo a movimenti e partiti…
«Una delle differenze principali è che i partiti sono creature dello stato-nazione.
Mentre la “generazione globale”, quella dei social media, si trova in una situazione simile a quella di Colombo, quando il suo viaggio gli fece incontrare un continente nuovo e imprevisto. Questi Nuovi Colombo stanno esplorando un mondo nuovo, per il quale ancora non esistono né nomi né mappe. È una nuova era di scoperta. E le proteste potrebbero continuare fino a quando la politica stessa non sarà rifondata».
Nell’attesa però i temi classici della “vecchia” sinistra, tipo diseguaglianza economica e lavoro, sono più attuali che mai. Interessano anche ai movimenti della nuova sinistra?
«Certo. Ma hanno scarsissima fiducia nel fatto che i partiti possano prendersi cura dei loro problemi esistenziali e rappresentare i loro legittimi interessi. Lo si vede bene in Brasile, un paese trasformato in meglio dal partito al potere, dove la disoccupazione è scesa ai minimi storici. Dal quale, ciononostante, si sta alzando un forte grido di dolore dal basso contro uno stato distante e un’élite corrotta».
Il catalogo dei leader progressisti recenti a grandi speranze ha fatto seguire anche delusioni: Blair, Zapatero, per certi versi Obama, ora Hollande. Perché è tanto difficile mantenere promesse di sinistra?
«Tutte queste persone hanno usato mantra simili: più mercato, più tecnologia, più crescita, più flessibilità. Parole d’ordine che non forniscono alcuna rassicurazione nei tempi in cui viviamo. Piuttosto il contrario. Hanno usato mezzi e risposte della politica degli stati-nazione, spesso in una versione neoliberale. Perciò hanno deluso».
E invece i giovani, la sua Generazione dei Nuovi Colombo, quali parole chiave hanno a cuore?
«Un sondaggio svolto dal centro di ricerca che dirigo mostra che i giovani sono incerti su quasi tutto. Tranne che sulla questione ambientale, che ha per loro un’alta priorità. E qui si realizza un nuovo paradosso della società del rischio che i vecchi partiti sembrano non afferrare, e che chiamerò “catastrofismo illuminante”. Ovvero, drammatizzare il cambiamento climatico e la crisi ambientale non ha altro scopo che evitare la catastrofe. Chi mette in guardia contro di essa lo fa solo per essere smentito. Quest’uso profilattico delle catastrofi future ha creato un nuovo tipo di movimento di protesta, auto-mobilitante, che va oltre le frontiere».
Vede un partito o un leader al quale la sinistra europea dovrebbe guardare per ispirarsi e tornare a vincere?
«Più che a livello nazionale o globale si possono trovare modelli vincenti al livello di comunità, più precisamente delle città globalizzate. Ero a Basilea di recente e lì è in atto un dibattito eccitante sulle “piccole New York” svizzere. Specialmente Zurigo si è trasformata negli ultimi vent’anni in un posto che detta le tendenze metropolitane. La sua caratteristica è essere un collage di diversi milieu globalizzati. Come a New York queste comunità si sono reinventate in diverse parti della città, con un viavai continuo di nuove facce, storie, tendenze, tipo il giardinaggio urbano o le biciclette a scatto fisso. Sorprendentemente questo ambiente cosmopolita di minoranze ha conquistato una chiara maggioranza nella politica cittadina. Succede lo stesso a Basilea, Berna ma anche a Monaco e Berlino e forse in altre città nel mondo. Qui i problemi sono spesso identificati come globali. Gli abitanti hanno un orientamento cosmopolita. Usano mezzi di comunicazione globali e sono altamente connessi. Da non sottovalutare è che queste piccole New York svizzere hanno un gran successo anche in termini di occupazione. A confronto con realtà del genere le politiche tradizionali sembrano davvero molto passate di moda».
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