«Calderoli si dimetta, Maroni è correo»
MILANO — «Solo le dimissioni di Calderoli risolvono il problema». Enrico Letta è tagliente come un rasoio. Non è disposto a lasciar evaporare la vicenda innescata dalle dichiarazioni del vicepresidente del Senato sulla ministro Kyenge («Mi ricorda un orango»). Anzi. Appena concluso il suo intervento alla Chatham House di Londra, per far capire che la questione gli sta a cuore, ringrazia il cronista che gli ha posto la domanda: «Così i giornalisti possono riferire all’opinione pubblica quanto è negativo per l’immagine dell’Italia quel che ha detto Calderoli», parole che «sono una vergogna per il Paese». Il presidente del Consiglio allarga le braccia: «Solo lui può decidere le dimissioni che risolverebbero il problema perché è una vergogna». Per poi concludere: «Noi non siamo così, la presenza del ministro Kyenge nel mio governo dimostra che l’Italia è un Paese moderno».
E dunque, il braccio di ferro continua. Perché nella trincea opposta, Roberto Maroni tiene la posizione senza smuoversi di un millimetro. Ribadisce che «la questione è chiusa» ricordando che «Calderoli si è scusato pubblicamente e in Senato». E, semmai, si «meraviglia per la minaccia di ritorsioni sull’Expo». E se in giornata indiscrezioni assai attendibili di Palazzo Chigi attribuivano a Letta una frase su Maroni come un «leader che non riesce a far dimettere Calderoli da vicepresidente del Senato», Maroni scandisce che «Calderoli non si è dimesso perché la Lega ha deciso che non si dimettesse». Una posizione netta che da Palazzo Chigi veniva giudicata duramente: «Così facendo Maroni è correo dell’insulto al ministro Kyenge. Ma il leader con gli occhiali rossoneri è intenzionato a proseguire per la sua strada: «Io intendo continuare la nostra leale collaborazione con il governo su Expo. E mi auguro che Letta si renda conto che non può dare seguito alle sue minacce perché, questo sì, sarebbe un danno per il governo e per l’Italia».
I vicini al segretario leghista ritengono peraltro che la dura sortita del premier sia da spiegarsi con il contesto internazionale in cui si trovava. Qualcuno cita anche il duro editoriale di Famiglia cristiana che, attraverso la penna del suo direttore, don Antonio Sciortino, ieri titolava «Calderoli, l’epoca dell’impunità è finita». Dal canto suo Maroni avrebbe parlato di «un’uscita incomprensibile anche dal punto di vista della grammatica istituzionale, visto che non è il governo a dare la fiducia al Parlamento, ma il contrario».
Lui, Roberto Calderoli, appare un po’ abbacchiato ma lontanissimo dal pensiero delle dimissioni. Ritiene di essere stato «l’utile idiota, si è voluto parlare della mia scemenza invece di vicende assai più gravi». Poi, prova ancora a scherzarci sopra: «Ma l’interesse del premier è sempre gradito. Anche se saremmo stati più interessati nel sentirlo riferire in aula del caso kazako piuttosto che occuparsi di una vicenda come la mia».
Peraltro, la difesa senza incertezze del senatore bergamasco ha ricompattato la Lega come non accadeva da molto tempo a questa parte. La Padania in edicola ieri titolava a tutto pagina «Kalderolistan». E le pagine leghiste dei social network traboccano del sostegno a Calderoli. Ma la mobilitazione è alta anche nel versante opposto. Su Twitter, spopola il tag #CalderoliDimettiti, mentre le due petizioni su change.org con l’obiettivo di cui sopra, nel tardo pomeriggio di ieri avevano superato i 142 mila sottoscrittori, raccolti in poco più di 48 ore.
Ma, soprattutto, l’idea corrente è quella sintetizzata dalla Padania . E cioè, che il polverone politico mediatico nasconde la gravità del caso Kazakistan». Caso che, tuttavia, per la Lega coinvolge il governo e non soltanto il ministro dell’Interno. E infatti, la Lega venerdì non voterà la sfiducia ad Angelino Alfano: «La Lega non ha sottoscritto alcuna mozione di sfiducia nei confronti del ministro. La questione dovrà essere valutata, ma mi pare di poter dire che Alfano in Aula è stato chiaro: non era stato informato. E dunque, non mi parrebbe corretto votare la sfiducia».
In giornata, tuttavia, Maroni aveva espresso i suoi dubbi sulla possibilità che il responsabile del Viminale non sapesse nulla della «deportazione» di Alma Shalabayeva: «Non faccio valutazioni, dico solo da ex ministro dell’Interno che casi del genere erano gestiti dalla struttura con il coinvolgimento di tutti, anche ovviamente del ministro».
Una dichiarazione che ha spinto Gianfranco Rotondi a dare voce al sospetto che circola nel Pdl nei confronti dell’alleato nordista. Secondo l’ex ministro, «l’attacco di Maroni ad Alfano ci pone due problemi: primo, decidere se nelle regioni del Nord noi possiamo continuare a sostenere presidenti di opposizione al governo; secondo, se possiamo ancora stare al governo con una maggioranza che non si può estendere agli enti locali».
Marco Cremonesi
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