Perché l’Italia non va in piazza
E poi un viso che spunta ovunque, dall’America all’India. La maschera di Guy Fawkes indossata in V per Vendetta, il simbolo sorridente della rivolta al potere, sorpreso nel suo aspetto più dispotico e descritto nell’urgenza vitale di sovvertirlo. Milioni di persone stanno ribellandosi tornando a occupare strade e piazze. Dall’India al Cile, dall’Egitto al Brasile, alla Bulgaria. Milioni di persone manifestano mettendo in gioco la loro stessa vita. Milioni di persone chiedono, vogliono, pretendono una vita diversa.
Le piazze di Rio, di Istanbul, di Sofia, sono piazze in rivolta. Una rivolta non conclusa in un preciso programma di riscatto, assai meno decodificabile delle istanze degli Anni Settanta. E’ questa la reale novità sancita definitivamente con Occupy Wall Street. Per tutti gli anni ’80 e ’90 era sembrato che ogni focolaio di rivolta, manifestazione, occupazione, dovesse utilizzare sintassi e grammatiche degli anni ’60 e ’70. Una musealizzazione di quegli anni e di quei concetti. Una sorta di riproposizione con partiture ed esecuzioni diverse degli spartiti scritti in quegli anni.
La singolarità di queste piazze è che non hanno un unico vettore, nella maggior parte dei casi non hanno leader e non hanno partiti di riferimento. Qualcuno continua a vederci le istanze della classe operaia pronta all’assalto al cielo. Altri vedono solo giovani, giovani che cercano spazi. Gezi park per la Turchia e i mondiali per il Brasile sono fatti contingenti e aggreganti: queste piazze in rivolta non sono la talpa che scava ed emerge quando le contraddizioni maturano per costruire la fine del capitale. Queste piazze costruiscono qualcosa di diverso rispetto alle rivolte degli anni Settanta perché aggregano diversi mondi, diversi modi di sentire, diverse generazioni e, soprattutto, intendono codificare e forgiare diritti.
Le manifestazioni in India contro le violenze sulle donne; quelle degli studenti in Cile che dal 2006 chiedono un’educazione gratuita, pubblica, laica e accessibile a tutti e una Costituzione nuova, senza l’ombra di Pinochet; quelle in Bulgaria contro la corruzione, che ha preso di mira il governo neo-eletto, contestando la nomina di una figura vicina ad ambienti criminali al vertice dei servizi segreti, tutte, hanno un denominatore comune: costruire diritti e combattere la corruzione. Non possono esserci diritti se c’è corruzione. Ogni diritto conquistato con il sangue o con il consenso, scritto nelle carte costituenti o nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo è immediatamente annullato e reso solo formale dalla corruzione. Un diritto può esser lì, chiaro, apparentemente pronto, utile ai governi per definirsi democrazie, ma è svuotato e castrato dalla corruzione.
Queste piazze, infuocatesi per motivi e in contesti diversi, coltivano la stessa certezza. Un capitalismo criminale e una democrazia corrotta sono la distruzione di ogni diritto di fatto. Di ogni possibile realizzazione della felicità. Nelle foto che ci arrivano dal Brasile, dal Cile, dalla Turchia, dalla Bulgaria, dall’Egitto e dall’India è difficile trovare bandiere dello stesso colore. Spesso non ci sono affatto bandiere, ma striscioni colorati, striscioni sui cui è scritto quel che manca alla società perché sia rispettato chi ne fa parte, chi paga le tasse e non si sente compreso, rappresentato e ascoltato dalla politica. La politica è disprezzata in queste rivolte a ogni meridiano, perché divenuta scorciatoia per migliorare le vite di chi ha saputo farsi eleggere o magazzino che stipa interessi aziendali. Non ci sono bandiere non perché si è dinanzi a orde di ignavi che corrono anonimi dietro a stracci amorfi. No. Non ci sono bandiere perché queste proteste hanno letteralmente cambiato la logica dello scendere in piazza.
Quello che i manifestanti vogliono non è solo un mondo definito, chiaro, che conoscono o che qualcuno ha loro figurato. Non è un unico mondo che hanno disegnato e vogliono realizzare, non c’è socialismo da edificare, lotta di classe da realizzare, proprietà da bruciare e assaltare. O meglio, ci sono anche istanze di questo tipo, ma non sono queste a guidare le rivolte. A guidarle non c’è una sola idea. Sono manifestazioni che vogliono ottenere la possibilità che il proprio mondo sperato e immaginato ne contenga tanti. Si vogliono ottenere maggiori diritti e quindi l’idea di ciò che è già noto non è sufficiente. Nessuno scenario ideale, ma più scenari, tutti terreni, tutti da sperimentare ancor prima che edificare.
E poi la protesta in Brasile, in India, in Turchia, in Egitto è donna, non per una volontà programmatica di ottenere parità tra i sessi, ma per una naturale presenza di donne in piazza che si sono rese protagoniste assolute di questi nuovi percorsi. Le piazze bulgare e turche chiedono una società non corrotta, una società che premi il talento e la bravura. Le donne da sempre sopportano la negazione del proprio talento e la costrizione della propria bravura. Non può esistere una società che lotta perché ci sia possibilità di concorrenza, che pretende che il talento sia premiato e, nello stesso tempo, vincoli la donna. Le militanti del movimento “Femen” hanno trovato il canale adatto a questi tempi per attirare attenzione contro la violenza sulle donne, il sessismo e le discriminazioni. Si mostrano a seno nudo: il loro corpo diventa terreno di battaglia. Sanno che il corpo nudo fa notizia, quindi ne capovolgono il senso: il messaggio da pruriginoso e scandalistico finisce per essere completamente diverso, opposto nel senso. Trucco semplice quanto efficace.
Piazza Tahrir, Il Cairo Ma l’immagine che non dimenticherò è quella del cordone di protezione attorno alle donne in piazza Tahrir. Protezione necessaria perché in Egitto, come era accaduto in Iran, esiste una precisa strategia, quella di stuprare donne e poi lasciarle andare perché raccontino alle altre, perché siano monito per chi, tra loro, ha intenzione di scendere in piazza. Prese a caso con la forza, quando sono isolate o addirittura strappate al gruppo con cui sono in piazza a manifestare. Ecco, quell’immagine dello spazio tra i manifestanti e le donne non è segregazione – per la prima volta non lo è – ma protezione. In quel modo nessuna donna poteva essere sottratta al gruppo. Su nessuna poteva essere usata violenza.
Ovunque, oltre che per chiedere diritti, si scende in piazza contro corruzione e autoritarismo e non si toglie fiducia alla legge, ma si dà piuttosto fiducia alla democrazia, entrambe divelte e modificate proprio da tangenti, familismo, mafie. Questo accade in territori ricchi di risorse e di energie. In Turchia, in Brasile, in India la corruzione diventa un vincolo alla felicità. Se c’è corruzione c’è meno lavoro, se c’è corruzione non ci sono idee migliori che vincono, ma solo idee protette che si impongono, e non c’è mercato vero. In Brasile si è manifestato non semplicemente perché è stato speso del denaro per i mondiali di calcio, ma perché si sono sprecate in maniera affatto trasparente risorse che potevano essere utilizzate altrove. Si è manifestato per spese fatte senza lungimiranza. Queste sono proteste di territori potenzialmente ricchissimi, dove esistono risorse che vengono dilapidate dalla cattiva gestione. La Bulgaria, tra i paesi balcanici, è quello che si trova in una fase di rinascimento economico potenziale, ed è saccheggiato dalle famiglie mafiose. Eppure in questi luoghi, nei luoghi delle manifestazioni, la corruzione è completamente diversa dalla corruzione in Europa e in Italia. Da noi è un vincolo di accesso: corrompi, puoi lavorare. Corrompi, ottieni un diritto per te. Un diritto che spetterebbe a tutti, lo ottieni solo corrompendo.
Nei paesi in cui si manifesta, eliminata la corruzione – posto che si riesca a farlo – c’è un’infinita ricchezza da gestire. Nel nostro paese, tolta la corruzione, il rischio è che non ci sia niente che possa sostituire quel sistema di mediazione. La corruzione qui da noi è avvertita, incredibilmente, come necessaria. Mentre altrove la lotta alla corruzione è una possibilità di trasformazione, in Italia si teme che debellando quella non resterà nessuna altra risorsa. Apparentemente tutti la detestano, ma in realtà diventa una sorta di scorciatoia per l’accesso al lavoro e al diritto negato. La corruzione mafiosa, per esempio, è ormai l’unica premessa per un’economia florida: con mazzette e percentuali si aprono cantieri, si avviano lavori, si assume. Senza questo, in molti casi, tutto sarebbe fermo. Ecco perché talvolta la domanda “ma se le cose vanno così male perché non scendiamo in piazza anche noi?” sembra più che altro un artificio retorico. Certo i sindacati, i lavoratori, gli studenti manifestano, ma lo fanno con linguaggi assai diversi dalle rivolte che qui stiamo raccontando e il messaggio che passa è che manifestino per sé, che manifestino escludendo, per difendere categorie, in alcuni casi rendite di posizione. Ecco perché guardiamo a queste piazze in rivolta con un senso di nostalgia, come fossero rappresentazione di qualcosa che qui da noi non potrà più accadere. Perché in fondo, questo è il sottinteso, “in Italia la ricchezza privata si mantiene sopra la soglia minima sopportabile, il welfare è ancora sostenibile, quindi di cosa ci lamentiamo”.
A falsare tutto si aggiunge questo clima di apparente pacificazione, finalizzato unicamente alla conservazione dell’esistente. Non ci sono prospettive. Crediamo di vivere in uno Stato di Diritto ma a ben guardare questo Stato agisce con comportamenti criminali verso gli immigrati e verso le minoranze. Basta osservare giustizia e carceri per renderci conto che la nostra non può essere considerata una democrazia. Non si trova unione nemmeno nella protesta perché abbiamo gli animi avvelenati dal livore, dalla mancanza di prospettive. Chi ce la fa è corrotto, chi non ce la fa è puro. Il mercato è considerato male, il denaro è considerato male, il potere è male. Governare è male, meglio essere eternamente opposizione.
A tutto viene attribuita una categoria morale: fino che si ragionerà così, non ci saranno istanze di cambiamento perché non cambiare, in fondo, è bene. Gli italiani sono come gli anziani, preferiscono riflettere, pensare, interpretare il passato, rinchiudersi in un passato di glorie, perché temono che il loro futuro sia solo morte. Questa è la più grande delle disperazioni: vivere in un meccanismo che si regge sulla corruzione piuttosto che esserne ammorbato. Vedere la corruzione come un male contro cui urlare, ma da non risolvere e a cui piegarsi, quando necessità impone. Le piazze turche, bulgare, brasiliane, egiziane, nella loro diversità, mostrano la speranza del diritto e la convenienza dell’onestà. Da queste piazze – se riusciamo a scorgerla – la speranza.
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