by Sergio Segio | 15 Luglio 2013 7:12
Spara e si scusa spesso, il senatore. L’ha fatto anche ieri, con Cécile Kyenge che aveva associato a un orango. Ma può rimanere, chi dice simili mostruosità, alla vicepresidenza del Senato?
È fatto così, l’ex ministro: Doctor Jekyll e Mister «Pota». E se il primo è riconosciuto come un vicepresidente del Senato attento a stare al di sopra delle parti, il secondo (deve il nomignolo «pota» all’intercalare bergamasco simile al veneto «ciò» o al romanesco «ahò») è incapace di trattenersi. Quando gli scappa, gli scappa.
E gliene sono scappate tante. Ha accusato la sinistra di tentare «un vero e proprio golpe proponendo di dare la cittadinanza ai bingo-bongo». Lanciato l’idea di una nuova moneta battezzata il «Calderolo». Fatto infuriare il mondo musulmano dicendo: «Sul terreno dove dovrebbe nascere la moschea farò pascolare i maiali». Gonfiato il petto vantandosi di non essere «mai andato a cena con un romano». Minacciato «molti personaggi ai vertici delle istituzioni» di un processo del «tribunale del popolo padano» con «l’imputazione di genocidio».
E poi ancora ha scandalizzato i disabili con un paragone indecente: «C’è ancora qualche mongoloide che vota Ulivo». Proposto «una taglia di un milione di lire per chi denunci un albanese irregolare». Insultato il cardinale Tettamanzi reo d’essere ecumenico con gli immigrati: «Col territorio non c’entra niente, sarebbe come mettere un prete mafioso in Sicilia». Irritato i nemici del razzismo e gli amici dell’America tracciando un paragone con la presidenza Obama: «Non vorrei tra cinque anni trovarmi un presidente abbronzato…». Esultato per il trionfo dell’Italia sulla Francia ai Mondiali visto come «la vittoria della nostra identità» contro una squadra che aveva «schierato negri, islamici e comunisti». Sostenuto che «la civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni». Indignato la Ue promuovendo una marcia su Bruxelles con la promessa di portare in Belgio «un po’ di saggezza della croce a quel popolo di pedofili». Quando mostrò in tv la maglietta con una vignetta su Maometto, dando lo spunto ai fanatici islamici per attaccare il consolato italiano di Bengasi, sollevò un vespaio tale da essere costretto a dimettersi da ministro. Due mesi dopo, grazie a Bossi al quale era fedelissimo («se mi dice “buttati da questo ponte” io mi butto. Magari mi dispiace, ma mi butto») veniva già ripescato come vicepresidente di Palazzo Madama.
Anche ieri, dopo le offese al ministro Kyenge, si è levato un coro: dimissioni! Da sinistra, ma non solo. Basti dire che il ministro Giampiero D’Alia, che sinistrorso non è, si è spinto a paragonare il leghista agli squadristi dell’Alabama: «usa un linguaggio da Ku Klux Klan». Lui fa spallucce: «Ho invitato il ministro Kyenge ad un confronto a Bergamo per scusarmi con lei. Ma non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio». Dice d’aver fatto quella battuta solo «in riferimento ai lineamenti». Peggio il rattoppo che il buco.
E ha spiegato alla nostra Anna Gandolfi che lui ama questi paragoni con gli animali e che vede Enrico Letta come un airone («zampetta nella palude») e Angelino Alfano come una rana e Anna Maria Cancellieri come un San Bernardo e via così… La tesi di Francesco Speroni, che da Bruxelles si è precipitato a difendere il camerata padano: «Noi dicevamo che Leopoldo Elia assomigliava a un tapiro, non è mica offensivo. Il figlio di Bossi è stato battezzato il Trota, ma siccome è bianco nessuno si arrabbia…». Del resto, aggiunge, «anche Celentano dicevano che si muovesse come uno scimpanzé!». Ora, a parte il fatto che il soprannome a Renzo fu dato da Umberto Bossi («Mio figlio il mio delfino? Per ora è semmai una trota») l’uno e l’altro fingono di ignorare il nodo: ogni parola è figlia della storia e va collocata nel suo contesto. I soprannomi dati a Bettino Craxi («il cinghialone»), Vittorio Sbardella («lo squalo»), Romano Prodi («il mortadella»), Silvio Berlusconi («il caimano») o Daniela Santanchè («la pitonessa») possono essere di buon gusto o no, bene accetti o no, ironici o no. Ma non sono «razzisti». Dare del «pony di razza» per la bassa statura ad Amintore Fanfani o dell’ippopotamo per la stazza a Giuliano Ferrara, invece, anche se entrambi si sono sempre sforzati di sorriderne, è un’altra faccenda.
E dare del «banana», «bingo bongo» od «orango» a una persona di colore è un’insolenza infame. Sulla quale non si può scherzare perché getta sale sulle ferite di ogni nero che si trascina dietro i dolori dell’apartheid e della schiavitù di decine di milioni di schiavi, ridotti in catene proprio perché catalogati come «razza inferiore». Non c’è nero che non porti addosso come un marchio a fuoco quei paragoni teorizzati da «scienziati» quali Georges Cuvier («I movimenti della Venere Ottentotta avevano qualcosa di brusco e capriccioso che ricordava quelli delle scimmie…») o Cesare Lombroso: «Nel negro la faccia predomina sulla fronte, come le passioni affogano l’intelligenza (…) Le suture del capo (…) gli si ossificano prestamente come nell’idiota e nelle scimmie». Per non dire de La difesa della razza fascista. Non ricordarsene o peggio ancora riderne è buttar brace su quelle piaghe.
Quanto al fatto che «scegliere dei ministri stranieri è una scelta sbagliata» e che lui non conosce casi di «italiani ministri all’estero», l’ancora (incredibilmente) vicepresidente del Senato scorda che Henry Kissinger era nato in Baviera ma diventò il potente segretario di Stato americano. Che il premier belga Elio di Rupo per «ius sanguinis» è italiano. O che a salvare l’onore della Francia dopo la disfatta di Sedan, dopo che «il più francese dei francesi» Napoleone III si era arreso ai prussiani, fu il figlio d’un immigrato, Leon Gambetta. Che era diventato francese solo undici anni prima.
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