“Le imprese temono il fisco più del costo del lavoro”

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MILANO — Non è il costo del lavoro a rendere le imprese italiane poco competitive. Piuttosto «il peso del carico fiscale sull’economia regolare e il costo dell’energia ». Due zavorre che hanno contribuito non poco al declino dell’industria nazionale: complice il perdurare della recessione, ora mostra «un quadro di diffusa debolezza » con una «perdita di produzione che ha assunto dimensioni preoccupanti», con il risultato per cui «in tutti i comparti i livelli produttivi sono inferiori a quelli precedenti la crisi».
È questo, in sintesi, il contenuto di un ampio studio della Banca d’Italia, un lavoro d’equipe formato da otto economisti, che fa il punto su “Il sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi”. Un documento che contiene al tempo stesso, le ragioni del declino e le sue possibili soluzioni.
Si parte dalle prime. A pesare sulle aziende, come hanno capito da tempo i lavoratori guardandosi nel portafoglio, non è il costo degli stipendi. Al netto del carico fiscale, s’intende. La retribuzione netta di un dipendente celibe, nel 2011 era del 15% inferiore rispetto a Belgio e Francia e del 30% rispetto alla Germania. Il freno allo sviluppo è invece dato dalle tasse, nel nostro paese superiore del 2,5% rispetto alla media Ue. E se si considera anche l’Irap si arriva a 5 punti percentuali. Poi c’è l’energia. In questo caso i prezzi pagati dalle imprese italiane rispetti ai concorrenti dell’eurozona sono del 30% superiori.
Ma non ci sono solo i fattori esterni. Secondo lo studio di Bankitalia anche le imprese hanno compiuto errori. Nodi che non si riescono ancora a sciogliere: bassa capitalizzazione, dimensioni ridotte, scarse risorse destinate a ricerca e sviluppo, proprietà familiare. L’analisi ricalca le tesi dominanti sulla situazione di caduta dell’industria italiana. Che non comincia di certo nel 2009, con lo scoppio della bolla immobiliare. Ma rileggerle fa sempre un certo effetto: «Gli andamenti dell’ultimo quadriennio si inseriscono in una tendenza declinante di più lungo periodo, sia nelle produzioni tipiche del made in Italy, come tessile e calzature, sia in quelle caratterizzate da livelli tecnologici più avanzati e da rilevanti economie di scala, come elettronica e autoveicoli».
La recessione, sempre secondo gli analisti di via Nazionale, ha portato allo scoperto la malattia già in atto: «L’andamento insoddisfacente della produttività e la perdita di competitività sui mercati riflettono le difficoltà della nostra industria ad adattarsi ai grandi cambiamenti avvenuti nel corso degli ultimi due decenni nel contesto internazionale. Difficoltà che — conclude lo studio — incidono profondamente sul progresso tecnico e organizzativo dell’inetero sistema economico ».
Un de profundis senza possibilità di riscatto? No, perché la conclusione degli otto economisti lascia accesa la luce in fondo al tunnel: «Il declino dell’industria italiana non è irreversibile, purché le imprese sappiano trasformarsi ».


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