«Non colpevole». Zimmerman divide l’America

by Sergio Segio | 15 Luglio 2013 6:49

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WASHINGTON — Nel caso di Trayvon Martin ci sono due cose certe. L’uccisione del ragazzo afroamericano di 17 anni. E l’identità di chi ha sparato, George Zimmerman, 29 anni, americano di origine ispanica e vigilante volontario. Per il resto poco: nessun testimone, versioni contrastanti, indagine fatta con i piedi. Sopra tutto un macigno: la questione razziale. Alla fine la giuria, composta da sei donne di cui 5 bianche e riunita nel tribunale di Sanford (Florida), ha emesso il suo verdetto. Assoluzione, deliberata dopo appena 16 ore. Zimmerman ha agito per legittima difesa in risposta ad un’aggressione da parte del ragazzo. E la sentenza ha spaccato l’America, tra urla di sdegno «per lo schiaffo in faccia» soddisfazione di chi aveva denunciato un processo politico e timori di violenze.

Ripartiamo dai fatti. Il 26 febbraio 2012, Zimmerman, un poliziotto mancato che fa il volontario per vegliare sul quartiere, vede Trayvon vicino al complesso dove abita. Il ragazzo ha un cappuccio sulla testa, sta tornando da un negozio. Secondo l’accusato, invece, si comporta in modo sospetto. Zimmerman chiama il 911 e l’agente gli dice di restare in auto in attesa di una pattuglia. Ma lui disobbedisce, scende dalla vettura e segue Trayvon. Quello che accade dopo cambia a seconda delle versioni. Zimmerman afferma di essere stato aggredito. Mostra il naso fratturato, ferite alla nuca. Ha temuto per la sua vita, ha sparato. L’accusa rovescia lo scenario. All’inizio Zimmerman non è neppure arrestato. In Florida la legge sulla legittima difesa è molto ampia. La clemenza della polizia provoca proteste furiose, indaga l’Fbi, si muovono le associazioni per i diritti civili. Interviene lo stesso presidente Obama con una frase forte: «Se avessi un figlio sarebbe come Trayvon». L’11 aprile lo sparatore finisce in cella. Tutto è rimandato al processo-madre. Complicato.

Nessuno sa chi abbia cominciato per primo. Durante le udienze è trasmesso un audio, registrato sulla scena del crimine, dove si sente un urlo disperato. Le mamme di entrambi i protagonisti diranno: era la voce di mio figlio. In aula arrivano ricostruzioni al computer e con i manichini. I legali dell’accusato fanno di tutto per presentarlo come un mollaccione, che in palestra fatica poco e non è in grado di affrontare Trayvon. Chiedono ai giurati, di restare ai fatti, senza farsi suggestionare dal processo che si è celebrato all’esterno. Risponde lo schieramento avversario: Zimmerman lo ha preso di mira in quanto afroamericano, ha visto in lui «un problema» solo perché nero. Con cappuccio in testa e colore della pelle sinonimi di criminalità. E tutto aggravato dalla cultura delle armi.

Battaglia feroce vinta dalla difesa. E al giudice non è rimasto che dire: «Signor Zimmerman lei non ha più nulla da fare con questa corte». Gli hanno tolto il bracciale elettronico, probabile che gli restituiscano la pistola Kel-Tec PF9 usata per sparare. E’ previsto dalla Legge.

Non appena si è diffusa la notizia del verdetto sono nate proteste, qualche incidente a Oakland (California), con la polizia in stato d’allerta e appelli alla calma. Poi tanta rabbia, condivisa da alcune star. Per Rihanna «è stato il giorno più triste»; Michael Moore ha ironizzato: «E’ stato Martin a inseguire con la pistola Zimmerman». Il legale della vittima, Ben Crump, ha paragonato Trayvon a Emmett Till, il ragazzo linciato dai bianchi e non ha escluso di promuovere un’azione civile per investire il governo federale. «La giuria ha parlato — ha commentato Obama —. Ora chiedo di rispettare l’invito alla calma lanciato dai due genitori di Trayvon. Questa morte è stata una tragedia per tutta l’America. Chiediamoci se stiamo facendo il possibile per prevenire tragedie simili in futuro». Composti i genitori della vittima: «Abbiamo il cuore spezzato. Siamo increduli». Poi sono andati a pregare.

Guido Olimpio

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