Bankitalia: il fisco sta pesando su crescita e competitività

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ROMA — Non è il costo del lavoro a frenare la competitività delle imprese, ma è il peso del fisco a cui si aggiungono gli alti costi dell’energia. Lo affermano un gruppo di economisti — tra loro vi è anche l’attuale Ragioniere dello Stato Daniele Franco — della Banca d’Italia in un ampio studio sul «sistema industriale italiano tra globalizzazione e crisi».

Il costo del lavoro, «se valutato al netto della tassazione, non risulta un fattore di freno primario per la competitività delle imprese italiane» mentre «i costi dell’energia e una pressione fiscale molto elevata sull’economia regolare rendono più difficile alle imprese competere», afferma lo studio che svolge una preoccupante analisi sull’andamento del sistema produttivo italiano dall’avvio della crisi ad oggi.

All’inizio del 2013 la produzione industriale «risultava inferiore di circa un quarto al livello pre-crisi». Nel 2012 l’industria italiana «ha prodotto 257 miliardi di euro di valore aggiunto, con un’occupazione di 4,7 milioni di addetti. Rappresenta oggi meno del 20% del valore aggiunto e dell’occupazione complessiva», ma, dice Bankitalia, è una fonte fondamentale di innovazione e competitività (effettua oltre il 70% della spesa per ricerca e sviluppo del settore privato) e ha un ruolo decisivo nell’equilibrio dei conti con l’estero (contribuisce per quasi l’80% alle esportazioni) e agisce anche da traino per il settore terziario.

Se si eccettua il comparto dell’energia caratterizzato da tassi di variazione sempre positivi, la crisi al di là dell’impatto degli ultimi due anni sulle costruzioni ha appesantito soprattutto le difficoltà del Made in Italy innestandosi su una tendenza di più lungo periodo. Il tessile e le calzature hanno mostrato dall’aprile 2008 un calo del 30,7% e del 39,3%, ma se si risale alla seconda metà degli anni Novanta il calo è del 50-70%.

Il declino per questi due settori è condiviso anche da Francia e Germania, dove però la produzione ha subito danni minori nel periodo di crisi. In Italia ci sono state conseguenze pesanti sul mercato del lavoro e anche sul reddito. Nel 2012 quello procapite è risultato inferiore del 9% rispetto al livello registrato nel 2007 e Bankitalia prevede un ulteriore calo nel 2013.

Il costo del lavoro rappresenta circa il 17% del fatturato dell’industria in senso stretto e circa i due terzi del valore aggiunto. Oltre un terzo è assorbito dagli oneri sociali. Per un lavoratore dipendente medio, celibe, senza carichi familiari, impiegato nel settore industriale, la retribuzione netta rappresentava nel 2011 poco più del 52% del costo complessivo per l’azienda a fronte di quasi il 58% in media negli altri Paesi dell’area dell’euro. La percentuale risultava più bassa soltanto in Belgio, Germania, Francia e Austria dove però, a conti fatti, in presenza di una retribuzione lorda più elevata le buste paga risultavano più ricche del 15-30%. Ebbene, secondo lo studio dell’Istituto di via Nazionale, la penetrazione nei mercati europei delle produzioni di Paesi a bassi salari ha fatto sì che il dibattito sulla competitività delle imprese italiane si sia spesso imperniato sul costo del lavoro, in particolare su un indicatore (Clup, costo del lavoro per unità di prodotto) che raffronta il costo alla produttività del lavoro. Ma questo «è fuorviante» e soprattutto non vero perché le analisi dimostrano che ad aver determinato il declino («non irreversibile») dell’industria frenandone la competitività sono state soprattutto le alte tasse, i costi dell’energia e «gli oneri determinati dalle inefficienze della burocrazia e della giustizia civile».

Stefania Tamburello


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