Al confronto i nostri codici ingialliscono sempre più

by Sergio Segio | 12 Luglio 2013 8:02

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Intanto significa che a San Pietro regna un homo novus, che sa accompagnare le parole con i fatti. E a loro volta i fatti non hanno valore esclusivamente per se stessi, bensì per il contesto nel quale si consumano, per il tempo in cui cadono, per il messaggio che trasmettono.
C’è infatti un monito, un richiamo, nella decisione d’inasprire le pene per gli abusi sessuali sui minori. Fosse successo prima dello scandalo di Boston, prima dei mille altri casi di pedofilia sbucati come funghi velenosi all’interno della Chiesa, magari non ci avremmo fatto caso. C’è inoltre un altolà nel nuovo reato che punisce chi trafuga documenti: mai più un altro corvo in Vaticano, per dirla con parole spicce. E c’è infine una lezione nella scelta d’abolire la pena dell’ergastolo, sostituendolo con la reclusione fino a un massimo di 35 anni.
Questa lezione ci riguarda, ci tocca da vicino. Perché quaggiù, sulla sponda laica del Tevere, l’ergastolo c’è eccome. Punisce 1.582 detenuti (al 30 giugno 2013), una cifra quadruplicata negli ultimi vent’anni. E in buona parte li punisce con l’ergastolo «ostativo», che vuol dire nessun beneficio penitenziario, niente sconti, né permessi premio, né libertà condizionata. Non è così in Europa, dove il carcere a vita è stato cancellato (come in Spagna, Polonia, Portogallo, Ungheria, Norvegia) o altrimenti viene disapplicato in via di fatto. Ma non dovrebbe essere così neanche in Italia, dato che l’articolo 27 della nostra Carta stabilisce la funzione rieducativa della pena. Insomma, il castigo di Stato serve a recuperare i cittadini, non a consumare una vendetta; e d’altra parte — come ha osservato Umberto Veronesi — il colpevole che marcisce in galera dopo vent’anni è un’altra persona, perché le sue cellule staminali neuronali si sono completamente rinnovate.
Ma dopotutto queste sono chiacchiere, librate in aria nel Paese delle chiacchiere. Fatti da commentare, del resto, non ne abbiamo. O meglio è un fatto che qui da noi rimanga in circolo il codice penale del 1930, firmato dal Guardasigilli di Benito Mussolini. È un fatto che mentre Papa Francesco contrasta con nuove figure criminose il genocidio e l’apartheid, l’Italia non riesca nemmeno a introdurre il reato di tortura. È un fatto che nel suo complesso la giustizia sia diventata una fabbrica d’ingiustizie, per i suoi tempi biblici ma anche per i suoi troppi pesi, con 35 mila fattispecie di reato che ci portiamo sul groppone. Ed è un fatto, o forse un misfatto, che per gli italiani l’unica via d’uscita sia ancora una volta il referendum (i Radicali ne hanno proposti 12, c’è anche l’abolizione dell’ergastolo).
Da qui l’invidia per chi sa prendere il toro per le corna, come succede in Vaticano. Certo, lì non c’è un Parlamento che dibatte, né un governo sempre in procinto di finire in crisi. Il Pontefice è al vertice del potere legislativo, esecutivo, giudiziario: una concentrazione senza pari, che a suo tempo Cavour aveva definito «il più schifoso despotismo». Tuttavia non c’è bisogno di rinunciare alla separazione dei poteri, per ottenere finalmente poteri che decidono. Servono riforme: cambiare la politica per cambiare la giustizia.
Michele Ainis

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