I mercati ignorano la bocciatura è il declino dei signori del rating
NEW YORK — Il declino dei signori del rating è rapido, quasi brutale. Standard & Poor’s declassa il giudizio di solvibilità del-l’Italia a BBB, ma subito dopo il Tesoro colloca senza difficoltà i suoi titoli sul mercato (9,5 miliardi di Bot). In altri tempi, e non certo lontani (l’estate al cardiopalmo del 2011 che culminò con le dimissioni di Silvio Berlusconi, l’estate convulsa del 2012 con nuovo panico da default sovrani nell’eurozona), le agenzie di rating dettavano legge sui mercati, creavano momenti di panico, fughe di capitali. Oggi i mercati reagiscono con uno sbadiglio. Eppure il valore legale dei rating non è stato abolito; stentano a realizzarsi i progetti per varare altri indicatori di solvibilità per chi emette titoli di debito. Tanti investitori istituzionali in giro per il mondo sono obbligati a mettersi in portafoglio solo titoli che hanno un rating presentabile. Finire vicino ai junk-bond o titoli spazzatura, per uno Stato sovrano comporta il rischio che si restringa la platea degli investitori a cui vendere i propri buoni del Tesoro. Però è un po’ come il valore legale della laurea: in effetti può essere irrilevante, a seconda della situazione del mercato.
Il declino dei signori dei rating — un oligopolio americano, dominato da S&P con Moody’s e Fitch — in parte se lo sono procurato loro. Non solo per i ripetuti scandali che le videro tra le imputate della crisi del 2008 (i mutui subprime avevano avuto dei rating elevati, elargiti “a pagamento”,
in un gigantesco conflitto d’interessi); di certo il loro ruolo fu nefasto e tuttavia non ebbe conseguenze rilevanti in termini di sanzioni, né si concluse in un ridimensionamento normativo del loro ruolo. Dal punto di vista dei mercati l’autogol più grave si verificò quando S&P declassò il rating sovrano degli Stati Uniti. Era l’agosto del 2011. A caldo, fu uno shock, anche se si trattava solo della perdita della tripla A (il voto più elevato). L’Amministrazione Obama ebbe una dura reazione, imputando a S&P perfino dei grossolani errori di calcolo. Col tempo tuttavia fu la reazione dei mercati a dimostrare che quel rating era insensato. Chi poteva credere seriamente che l’America un giorno non sarà in grado di rimborsare i suoi debiti? Forse solo la propaganda elettorale della destra repubblicana, che era impegnata a costruire un delirante teorema (“Obama ci trasformerà in una nuova Grecia”). Sui mercati la realtà era un’altra: ad ogni sussulto di paura globale, gli investitori in cerca di sicurezza andavano a comprarsi Treasury Bond, i titoli pubblici più liquidi del pianeta. Fu da quell’estate del 2011 che Wall Street cominciò a prendere le distanze dalla religione dei rating. Qualcosa non quadrava in quei giudizi, prima troppo lassisti e generosi verso i titoli tossici dei debitori privati, poi eccessivamente rigoristi nel giudizio di grandi Stati sovrani.
In Europa un altro cambiamento avvenne un anno fa.
Quando Mario Draghi pronunciò quello che è passato alla storia come “l’avvertimento di Londra”. In occasione di una conferenza nella City britannica, in una fase ancora molto instabile della crisi dell’eurozona, il presidente della Bce promise che avrebbe fatto “tutto quello che sarà necessario” per salvare l’euro. Da quel momento le pagelle di solvibilità dei singoli Stati sono meno importanti, rispetto alla determinazione della banca centrale. Finché c’è quella garanzia di ultima istanza, il rating conta poco. Semmai gli investitori scrutano la volontà politica dei governi europei di non lasciare che un partner debole (la Grecia, Cipro) crei il precedente di una uscita dall’euro. Una frase di Angela Merkel pesa più dei rating di S&P.
Infine, lo scenario mondiale è cambiato da quando Ben Bernanke, il presidente della Federal Reserve, ha annunciato che l’America è fuori dalla crisi e presto la banca centrale cesserà il suo aiuto d’emergenza, i massicci acquisti di bond (85 miliardi di dollari al mese) che sono stati la “droga monetaria” per pompare liquidità nell’economia reale. I tassi Usa hanno cominciato a muoversi al rialzo. La sfida per la Bce è isolarsi dal contagio dei rialzi Usa. É essenziale — perché l’eurozona resta in recessione e non può permettersi un rincaro del credito — e al tempo stesso è difficile per la forza di trascinamento del mercato Usa. I rialzi dei tassi sui titoli pubblici italiani sono provocati molto più dal trend mondiale innescato dalla Fed, e pochissimo dal declassamento di rating.
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