by Sergio Segio | 11 Luglio 2013 6:46
ROMA — La notizia ruzzola giù per le scale che portano dal primo piano, quello che dà l’accesso ai gruppi parlamentari, al Transatlantico di Montecitorio. Poche parole, spifferate, sussurrate, ed è il delirio.
Giungono con aria mesta (ma alcuni sembrano assai contenti) i deputati del Pdl che hanno marcato visita con Berlusconi e raccontano: «Silvio ci ha chiesto come stavamo, ha avuto una parola buona per tutti, poi ha detto la sua: “Se la sentenza della Cassazione sarà a mio sfavore, mi presenterò davanti al portone del carcere. Sono innocente e non ho paura, ma sono pronto”».
Tradotto: il Cavaliere è pronto a lanciare la bomba nucleare. Davanti ai cancelli di una prigione non ha bisogno di decretare la morte del governo Letta, basta un passo oltre quel portone che l’esecutivo ruzzola giù, esattamente come le notizie che rimbalzano tra i muri della Camera dei deputati.
Il Partito democratico è in debito d’ossigeno. Non è più in grado di modulare dissapori e malumori secondo lo spartito di sempre. Nei gruppi parlamentari si ragiona e si sbaglia. E tra un errore e l’altro si pensa al dopo, perché l’idea che il governo non possa farcela non è mai stata così concreta. Gli uomini di Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini fanno controinformazione: se il Pdl insiste, rompiamo noi, e facciamo cadere il governo. Parole mai pronunciate prima d’ora. Parole che portano conseguenze: a quel punto sarà Enrico Letta a sfidare Matteo Renzi alle primarie. Un gioco a due, il segretario verrà dopo. Magari a settembre, magari avrà il nome e cognome di Roberto Speranza. Il sindaco ex (?) rottamatore sta a Firenze e non sembra dar credito a queste voci. Tranquillizza i suoi: «Letta non farà uno strappo del genere, non ci credo, questa è una storia che viene messa in giro per colpire due obiettivi: me e il Pdl. Vogliono farmi capire che il gioco rimane sempre nelle loro mani e vogliono lasciare intendere a Berlusconi che non gli conviene rovesciare il tavolo. Ma è tattica, solo tattica».
E Renzi, a quanto pare, della tattica si è stufato. Si è ripromesso di non indugiare più sul tormentone «mi candido, non mi candido»: «Io voglio parlare all’Italia, anche perché la stiamo lasciando andare appresso ai giochetti di partito. Voglio parlare dello ius soli , delle aziende che chiudono e di quelle che potrebbero aprire se la burocrazia non ci soffocasse».
Così Renzi, ma ieri intorno al Pd spiravano venti di tempesta per una richiesta di sospensione che molti non hanno approvato e che qualcuno non ha capito. Il sindaco rottamatore guarda a quello che è successo ieri alla Camera e al Senato, ma non gongola quando sussurra ai suoi: «È incredibile, hanno fatto una figura di merda e sono giorni che ne facciamo, come partito e come governo. È come se ci fossimo messi a tirare rigori contro la nostra porta». Eppure i renziani in questo frangente a loro favorevole, con un Pd che, come dice uno dei candidati alla segreteria, ossia Gianni Pittella, ha deciso di suicidarsi sull’altare del governo delle larghe intese, non incassano.
Anche loro si sono persi nei meandri di una trattativa estenuante con il Pdl, non perché l’abbiano condotta, ma perché l’hanno subita, senza capire l’impatto mediatico di quella decisione parlamentare. E quando viene spiegato a tutti i deputati del Pd che «Alfano ha chiesto a Letta un po’ di tempo, per mettere su una protesta in difesa di Berlusconi, perché non si può fare altrimenti», i parlamentari del Partito democratico vengono presi alla sprovvista. Non sanno che fare e si adeguano. In molti renziani votano, per non avere addosso il marchio dell’infamia. In molti disertano la seduta. Davide Faraone, sostenitore del sindaco di Firenze è fuori di sé: «Non ho votato la sospensione…se continuano così ci chiederanno di unirci al Pdl per manifestare al palazzo di Giustizia». Renzi, da Firenze, dice ai suoi di non rigirare troppo il coltello nella piaga. Non perché sia colto da uno slancio di bontà, ma perché si rende conto che andando avanti di questo passo non sono i suoi avversari interni che perdono, ma è il Pd tutto che implode. Però non riesce a trattenere rabbia, stupore e stizza: «Come si fa a non discutere questa scelta in un’assemblea dei gruppi parlamentari? Così si ammazza il Pd e si lede il prestigio delle istituzioni. Votare la sospensiva è come dire: il Parlamento da ora in poi non conta niente e viene piegato ai voleri di Berlusconi».
Mentre Renzi si interroga e si arrabbia, nel Pd si litiga oltre il verosimile. Gentiloni non vota la sospensiva e Orfini non gliele manda a dire: «È una merda». Tutti contro tutti in questo partito che annaspa e si divide. Solo a fine giornata i maggiorenti capiscono il danno d’immagine che hanno fatto al Pd con quella sospensiva. È allora che Epifani, per evitare il boomerang mediatico, spara ad alzo zero contro il Pdl. Ma lo fa solo dopo aver preavvertito Alfano.
Maria Teresa Meli
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