Scontro aperto tra D’Alema e Renzi «Fa la vittima». «Non voglio permessi»

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ROMA — Aspetta che le luci del Nazareno siano spente, Matteo Renzi. Attende che l’incontro tra tutti i big del Partito democratico sia finito e che la frase con cui Massimo D’Alema gli aveva attribuito la volontà di «fare la vittima» abbia fatto il giro d’Italia. Poi, di fronte alle telecamere e ai microfoni del Tg5 , certifica che dell’asse con l’ex premier non rimane praticamente più nulla. «Ho massimo rispetto per lui. Ma, che mi candido o che non mi candido, di certo non devo chiedere il permesso a D’Alema».

Da quella che era partita come la riunione dei bersaniani per lanciare la candidatura di Stefano Fassina e dall’ultima polemica a distanza tra Renzi e D’Alema, insomma, viene fuori l’inizio di un nuovo capitolo della guerra interna al Pd. Anche perché la prima, da riunione della corrente Fare il Pd, si trasforma in una sfilata di big a cui partecipano tutti i ministri democratici del governo Letta, finendo forse per spiazzare gli stessi bersaniani.

Perché, giorno dopo giorno, ora dopo ora, dentro il Pd continua a crescere una macro-area «governista» disposta a tutto pur di preservare l’esecutivo di Letta dalle tensioni congressuali. Ne fanno parte soprattutto gli ex popolari, da Dario Franceschini a Beppe Fioroni passando per Franco Marini. Ne fanno parte i big, come Massimo D’Alema, che sostengono la candidatura di Gianni Cuperlo e affermano che «l’idea di costruire una corrente anti-Renzi è una follia». E ne fa parte Guglielmo Epifani, il segretario del partito, che con Letta ha stretto un accordo che è qualcosa di più di un semplice patto di non belligeranza.

Nella sala che affaccia sul terrazzo del Nazareno sfilano tutti. E il cambio di passo, da riunione semplicemente «bersaniana» a riunione «governista», lo si avverte di buon mattino, quando gli organizzatori scelgono di aprire le porte ai giornalisti. Mancano Renzi e i renziani, marcano visita Veltroni e i veltroniani, non si fa vedere qualche franceschiniano. Ma gli altri ci sono tutti. Compreso Marco Meloni, uno dei deputati più vicini a Enrico Letta, che sale sul podio e lancia un avviso chiaro: «Quando andiamo in giro, sembra che l’80 per cento dei nostri siano contro il governo. Poi leggi i sondaggi e scopri che il 70 per cento degli italiani è favorevole all’esecutivo». Un concetto che Franceschini, rispondendo a Bersani («Siamo leali con Letta ma l’idea del governo di cambiamento è da tenere su»), ribadisce con forza. «In questi mesi siamo passati a riconoscerci non più come ex Margherita ed ex Ds. Siamo passati a riconoscerci addirittura come comunisti e democristiani. Attenzione— rimarca il ministro — è pericoloso».

Sono messaggi diretti soprattutto a Renzi ma anche a una fetta degli ex ds. Il sindaco di Firenze, nella stessa intervista serale della puntuta replica a D’Alema, avverte il partito: «Che questi signori così importanti e autorevoli passino un pomeriggio a parlare di Renzi, mi dispiace per loro. Mi sento spaesato. Anziché parlare delle mie mosse, si dessero loro una mossa». E, sul governo, lancia due segnali. Il primo è di critica, perché «s’è rinviato l’Iva, l’Imu e pure la Santanché, non possiamo continuare a rinviare». Il secondo di distensione: «Da italiano faccio il tifo per Enrico. Se lui fa bene, l’Italia sta meglio. Io non sono uno di quelli che gioca al mors tua vita mea».

Tutti, però, rimangono appesi a una domanda chiave: Renzi si candiderà oppure no? Il resto è guerra, e neanche tanto fredda. «Matteo, tranquillo. Oggi al Pd abbiamo parlato dell’Italia. Fonzie diventa Ecce bombo?», scrive su Twitter Stefano Fassina, ironizzando sull’assenza di Renzi con la nota citazione del film di Nanni Moretti («Mi si nota di più…?»). «Non entreremmo nel guinness dei primati scrivendo delle regole del congresso contro il presidente del Consiglio», scandisce Beppe Fioroni. E quando Franceschini invita Renzi a vedere Epifani, anche per discutere delle regole, lì si capisce che è tutta una grande attesa. Che durerà fino a quando il sindaco di Firenze non dirà una parola definitiva sulla sua candidatura.


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