by Sergio Segio | 5 Luglio 2013 7:09
IL CAIRO — «Siamo un popolo caldo, sentimentale e in fondo infantile. Che ride o che piange per una partita di calcio, figuriamoci per un avvenimento come la fine dell’incubo di quest’ultimo anno», dice Ahmad Mourad guardando una foto scattata mercoledì notte dopo la deposizione del raìs islamico. Due uomini che baciano e abbracciano un soldato, sprizzando felicità. «Io reportage così non ne faccio, ci pensano gli altri. Lavoro come fotografo ufficiale della presidenza egiziana, dieci anni con Mubarak, poi un anno con Morsi, da sabato sarò con il raìs ad interim», continua Ahmad, 35 anni, sposato e due figlie, un sorriso timido dietro gli occhiali nonostante il successo. Perché oltre a quel lavoro dietro le quinte, dal 2007 è anche scrittore di thriller ambientati al Cairo. Il primo, Vertigo , è già alla 12esima edizione qui, tradotto in varie lingue compresa la nostra per Marsilio. Il secondo, Polvere di diamanti , è del 2010, uscito da pochi giorni in Italia per lo stesso editore. Libri che parlano di corruzione e abusi, di politici e tycoon, di polizia e militari.
I militari, appunto: oggi sono baciati e abbracciati, ma non è sempre stato così. Solo un anno fa erano i nemici. Che succede agli egiziani dal cuore tenero, li hanno già perdonati?
«Abbiamo sempre amato i nostri militari, sono figli del popolo, strumento del sistema che li comanda dall’alto ma con dignità e rettitudine. E a differenza della polizia, che nell’ultimo decennio Mubarak usò come braccio violento mentre indeboliva l’esercito, i soldati non attaccavano il popolo, anzi nella Rivoluzione erano al suo fianco, la gente offriva loro fiori e si fotografava sui carri armati. Poi è cambiato, è vero, durante la lunga reggenza dei generali ci siamo sentiti traditi, eravamo furiosi. Pensavamo che il loro capo Tantawi volesse usurpare il potere e l’esercito in alcune occasioni passò alle violenze. Ma ora è passato, Morsi è riuscito a riunire il popolo e l’esercito, perfino la polizia è riabilitata».
Eppure Mubarak era un militare, come può dire che era amato?
«Più che Mubarak, era il suo regime corrotto e violento ad essere odiato, contro di lui umanamente non c’era tutto quell’astio, anche se la gente ormai voleva cacciarlo. Forse perché da 60 anni avevamo raìs militari o per infantilismo, il presidente è sempre stato visto qui come un padre. Amatissimo come fu solo Nasser, ma comunque rispettato nei casi di Sadat e di Mubarak all’inizio. Dalla prima Rivoluzione, questa per me è la seconda, siamo però cresciuti. Ora è diverso».
Al Sisi, però, è visto come un eroe. Eppure è lui al comando .
«E’ un eroe perché ha osato affrontare la piovra della Fratellanza, potente e pericolosa, veri serpenti. Gli si riconosce il coraggio e l’abilità, c’è riconoscenza perché ci ha tirato fuori da un buco nero. Ma sono certo che non vuole il potere politico, è troppo intelligente. Se lo facesse scenderemmo di nuovo in piazza. Questo non è un golpe, domenica ero anch’io nelle strade con tutto l’Egitto. Il sabato prima è stato il mio ultimo giorno di lavoro per Morsi, tra l’altro. A volte mi sento un po’ Dottor Jekyll e Mister Hide».
Morsi dove ha fallito?
«Morsi era solo un pupazzo usato e manovrato dalla gang della Fratellanza, non ha mai deciso niente, nemmeno di candidarsi. E la Fratellanza, a differenza dell’esercito, non pensa al Paese ma solo a se stessa. Si considera un’élite superiore: da una parte loro, i santi, i veri musulmani, dall’altra tutti gli altri. Ha un’idea vecchia e sbagliata di Islam, avrebbe imposto una dittatura religiosa che nessuno qui vuole».
Questo lo ha capito anche lavorando con Morsi?
«No, leggendo e studiando, seguendo gli eventi. Da Morsi non traspariva niente. Pregava, obbediva ai suoi capi, quasi non parlava. Anche fotografarlo non era facile, mai un sorriso, un linguaggio del corpo assente, rigido e inespressivo. Mubarak, che non rimpiango, almeno scherzava, sapeva stare con la gente. E poi era lui a decidere tutto nel bene e nel male. Morsi invece non era nessuno, nella storia di questo Paese è stato solo una virgola».
Cecilia Zecchinelli
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