by Sergio Segio | 4 Luglio 2013 7:27
«NON ci sono porte segrete. Non ci sono cavi sotterranei che dalla National Security Agency arrivano fino ai nostri server. Non c’è nessun modo in cui i dati che custodiamo possano essere violati. E lo dico con assoluta certezza, perché la Rete, cioè Internet, l’ho fatta io».
Vint Cerf è un meraviglioso nonno di 70 anni. Anche se passerà alla storia come il padre, il padre di Internet. «Assieme a molti altri, naturalmente» avverte lui che è appena atterrato in Italia da Londra dove ha ricevuto il prestigioso Queen Elizabeth Prize for Engineering assieme a Bob Kahn, Marc Andreessen, Louis Pouzin e Tim Berners Lee, per aver creato la rete. Da qualche anno è al servizio di Google dove ha l’incarico di vice presidente e chief web evangelist: «In realtà avevo chiesto il titolo di Granduca ma mi hanno fatto presente che l’ultimo aveva scatenato la prima guerra mondiale”
scherza».
Chief web evangelist vuol dire che Vint Cerf ha il compito di spiegare le meraviglie del web al mondo ancora non connesso oppure ai tanti che guardano alle innovazioni in corso come un pericolo piuttosto che come una opportunità. Per esempio i produttori di contenuti che Google Italia ha convocato a Roma per la prima “Big Tent”, un evento con il quale si cerca di aprire un dialogo che porti ad accordi vantaggiosi mentre fioccano ricorsi, indagini e proteste. Non solo in Italia: anche per questo, prima del Datagate, i giovani fondatori di Google, Larry Page e Sergey Brin, avevano deciso di spedire Cerf in missione in Europa per sei mesi contando sul fatto che il carisma del “padre di Internet” possa cambiare il clima.
Partiamo dal vostro modello pubblicitario. Si dice: in cambio di un buon servizio di mail, abbiamo rinunciato alla privacy. E quindi cominciamo subito con Datagate…
«Capisco ma è un errore. Non c’è nessuno fisicamente che a Google legge le nostre mail. C’è un computer che lo fa associando alle parole che usiamo gli annunci pubblicitari probabilmente più rilevanti. Ma i dati della mail sono al sicuro».
Questo si poteva dire prima del Datagate. Ora sappiamo che li legge la Nsa.
«Non è vero. Noi ci siamo limitati ad obbedire a ordini validati da un tribunale per casi specifici: era difficile opporsi no? Eppure in qualche caso lo abbiamo fatto e poi ci hanno dato ragione. Per questo oggi chiediamo di poter pubblicare tutte le richieste. Per dimostrare che non ci sono stati abusi».
Lei si è sempre battuto per le libertà della rete: come si sente davanti ad uno scandalo come il Datagate che usa proprio la rete per spiare i cittadini?
«Credo che dobbiamo riflettere su un punto e tornare a quello che accadde l’11 settembre. Uno Stato in cui la privacy è totalmente rispettata è uno Stato insicuro. Uno Stato in cui al contrario chi governa sa tutto dei propri cittadini è il massimo della sicurezza. Ma non credo che nessuno voglia vivere in questi due estremi. Dobbiamo trovare un equilibrio fra privacy e sicurezza».
Il suo collega Tim Berners Lee è stato molto più duro contro il Datagate.
«Credo che Tim stavolta si sbagli. Intendiamoci: anche io sono piuttosto nervoso per quello che leggo. Ma poi mi dico: Tim abita a Boston, dove c’è stato l’attentato della maratona. Lui si sente sicuro? Oggi un malintenzionato usando la rete può far deragliare un treno o far scontrare due aerei. I controlli servono. A tutti».
Lei è arrivato in Google quando l’azienda godeva di una simpatia diffusa e lo slogan “make no evil” era un mantra. Ora a giudicare dal numero di ricorsi aperti sembra che l’evil, il diavolo, sia proprio Google. E’ a disagio?
«No, assolutamente, credo che ci sia un fraintendimento. Prendiamo l’industria del giornali. Noi siamo perfettamente consapevoli che senza ricavi non ci può essere un giornalismo di qualità e quindi tifiamo affinché i giornali possano guadagnare anche nel mondo digitale».
Diciamo allora che gli editori non se ne sono accorti del vostro supporto.
«Dobbiamo cambiare modelli. La pubblicità sul web è un’altra cosa, segue altre logiche rispetto alla carta. E la risposta non è dire: non voglio più essere indicizzato da Google perché il traffico del tuo sito crollerebbe. Dobbiamo trovare tutti assieme una strada che ripartisca i ricavi, che sono in crescita, in maniera equa. Del resto il digitale è quello che vogliono i consumatori di media: oggi tutti sono contenti di pagare 99 centesimi per una canzone invece di dover comprare un intero album ».
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