Lo sforzo di conciliare umori politici e priorità europee

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Quel gesto tende a riportare il governo di Roma nel cono di luce positiva dal quale rischiava di uscire dopo la caduta di Mario Monti e il risultato delle elezioni di febbraio. Si tratta di un risultato soprattutto simbolico, eppure da non sottovalutare. Come minimo, lascia capire che in queste settimane ci sono state trattative riservate dall’esito non negativo. L’unico vero rischio è che l’enfasi induca a pensare che si possono violare i vincoli europei: sarebbe un errore marchiano.

Non a caso, al compiacimento di Palazzo Chigi è seguita una nota del commissario Olli Rehn, finlandese, ai ministri delle Finanze europei, con la lista delle condizioni stringenti da rispettare. L’impressione è che l’esecutivo stia seguendo un suo ruolino di marcia sul piano internazionale, distinguendo e filtrando gli umori parlamentari e la metamorfosi convulsa dei partiti alleati. Non è un’operazione facile. Il nervosismo che non si placa nel Pdl, nel Pd e perfino fra i montiani finisce per allungare un’ombra di precarietà sull’esecutivo.

Il ministro delle Riforme istituzionali, Gaetano Quagliariello, vittima del «fuoco amico» per le proposte in materia elettorale, ieri ha dovuto ribadire davanti ai vertici del centrodestra che al governo lui sta per volere di Silvio Berlusconi. Nel Pd l’impazienza di Matteo Renzi continua a produrre tensioni e recriminazioni fra i suoi alleati e i suoi avversari; e a riverberarsi sul futuro di Palazzo Chigi. In sovrappiù, la decisione del Consiglio Supremo di Difesa di rivendicare il potere di scelta del governo sull’acquisto degli aerei militari F35 anche rispetto alle prerogative rivendicate con un voto dal Parlamento, ha scatenato le opposizioni; e seminato qualche perplessità nelle file della stessa maggioranza. Soprattutto gli esponenti del Movimento 5 Stelle parlano di «schiaffo» alle Camere da parte del Quirinale. Ma sono le decisioni da prendere in politica economica a presentare le incognite maggiori.

Il timore è che le concessioni annunciate da Barroso siano usate come pretesto per sfondare il tetto della spesa pubblica. Mariastella Gelmini ha subito parlato di vittoria berlusconiana, e chiesto di «approfittare della falla apertasi nella burocrazia di Bruxelles». Anche se il segretario del Pdl e vicepremier, Angelino Alfano, si è limitato a definirla una risposta «alle buone ragioni della politica che indica, nella corretta e serrata trattativa nelle sedi opportune, la strada giusta…». Per evitare malintesi, con il passare dello ore è affiorata una lettura più prudente di quanto era successo. E nell’incontro del pomeriggio con il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, l’ex premier Monti ha insistito su «una politica di bilancio prudente, che non pregiudichi» i risultati degli ultimi due anni: un modo per rivendicare l’azione del proprio governo e chiedere ancora riforme strutturali.

Ma Saccomanni aveva avvertito subito, commentando «l’ottima notizia» arrivata da Bruxelles e accolta come una sconfessione degli scettici: «Non è in discussione il 3 per cento» nel rapporto fra deficit e Prodotto interno lordo. Insomma, la flessibilità non implica la libertà di violare la soglia fissata dall’Ue. Consente solo quelle che il ministro dell’Economia definisce «deviazioni temporanee» dai vincoli, per potere investire. Sono margini obbligati dalle tre condizioni dettate da Rehn nella sua lettera ai ministri economici europei. E sottopongono gli investimenti pubblici a maggiori e non minori controlli. Eppure, la possibilità di cominciare a fare una politica diversa c’è. Da questo punto di vista, si comprende la soddisfazione di Letta, Saccomanni e Alfano; come si capisce l’atteggiamento cauto, quasi arcigno di Monti. Ognuno è chiamato a ricoprire un ruolo diverso. L’importante è che tutti lavorino per un obiettivo sia condiviso.


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