L’esercito preme, ma Morsi non cede: «Non ci ruberanno la rivoluzione»

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IL CAIRO – «Sono il primo presidente democraticamente eletto in Egitto, il popolo e Dio hanno posto sulle mie spalle il peso di portare il Paese dalla dittatura alla modernità e alla legalità e non cederò al ricatto di chi vuole male alla nazione, al suo interno o all’estero. Chiedo all’esercito di ritirare il suo ultimatum, all’opposizione onesta di rispettare la democrazia, che proteggerò con la mia vita. Non ci ruberanno la rivoluzione». Mohammad Morsi, il raìs islamico oggetto della Grande Protesta esplosa domenica nel primo anniversario della sua nomina, poco prima della mezzanotte di ieri ha annunciato in tv che non si farà da parte. Smentite così le aspettative che le sue dimissioni fossero solo questione di ore, le voci che le avesse perfino già firmate, mentre l’ultimatum fissato dai militari per oggi alle 17 si avvicinava. Martedì, alla stessa ora, il capo delle Forze armate, generale Abdel Fattah Al Sisi, aveva dato 48 ore di tempo perché «le richieste del popolo venissero accolte e le parti politiche trovassero un’intesa, altrimenti l’esercito avrebbe imposto la sua road map». Viste le massicce e continue proteste, e l’impossibilità evidente di una conciliazione tra la Fratellanza al potere e l’opposizione, le parole di Al Sisi erano state viste come un ordine al raìs a lasciare il potere. Il clima già teso in Egitto ieri notte si è fatto così incandescente, in attesa della reazione dei generali e della piazza alla sfida a sorpresa di Morsi.

Che il raìs ormai avesse le ore contate sembrava una certezza ieri mattina, tanto che la Borsa aveva segnato i massimi da quasi un mese. Già dopo una nuova riunione con il capo dei generali Morsi aveva in realtà ribadito che non accettava l’ultimatum né la richiesta esplicita che secondo varie fonti Al Sisi avrebbe fatto al raìs di dimettersi. Ma poi, di minuto in minuto, tutto sembrava indicare che la sua fosse una battaglia persa. Dopo i cinque ministri dimessisi martedì anche quello degli Esteri aveva lasciato il posto. La riunione di emergenza del governo si era tenuta senza i responsabili della Difesa (Al Sisi) e degli Interni. Il premier Hisham Qandil aveva rimesso l’incarico. Il procuratore generale Mahmoud Abdel Meguid, rimosso da Morsi l’anno scorso perché «uomo di Mubarak», era stato reintegrato dalla Cassazione. E ancora: il papa copto Tawadros aveva sostenuto apertamente la ribellione, una presa di posizione inedita. Il partito salafita Al Nur, ex alleato dei Fratelli, aveva invocato elezioni presidenziali anticipate «o sarà guerra civile».

Il ritorno alle urne sembrava così scontato: non solo lo chiede da tempo il Fronte 30 giugno che raccoglie tutta l’opposizione laica (e che ieri ha nominato Mohammad ElBaradei suo unico rappresentante nei negoziati per la transizione), ma ormai è la volontà dei generali. Il loro piano, rivelato ieri dalla Reuters e fino a smentite ancora valido, prevede l’annullamento della Costituzione e della Shura (Senato), la nomina di un consiglio di transizione composto soprattutto da civili e tecnocrati delle varie forze fino a una nuova Carta e alle presidenziali, in un secondo tempo le elezioni per il parlamento. Il ruolo dei generali «sarà diverso» da quello avuto nella reggenza post Mubarak, meno «politico» anche se non chiaro. Si tratta a tutti gli effetti di un golpe, anche se soft e ampiamente accettato. L’opposizione ha sempre rifiutato la Costituzione attuale, approvata dal Parlamento a maggioranza islamica disciolto dall’Alta Corte un anno fa. La Shura, unica camera rimasta, è anch’essa «islamica» e nelle ultime ore molti suoi membri si sono dimessi.

Anche le piazze lanciavano segnali nella stessa direzione, indicando quanto la spaccatura dell’Egitto sia profonda ma segnalando che, numericamente, la Fratellanza è ormai in minoranza. Al Cairo, mentre in cielo comparivano per la prima volta elicotteri da guerra Apache, fiumi immensi di «ribelli» avevano invaso dal pomeriggio ancora una volta Tahrir, circondato il palazzo presidenziale di Ittihadiya e per la prima volta quello di Al Qubba dove si pensava si trovasse Morsi. Nella roccaforte di Heliopolis e a Giza la Fratellanza aveva riunito i suoi fedeli: in entrambi i presidi la rabbia per un’imminente sconfitta sembrava evidente. Un leader della Fratellanza, Mohammed Al Beltagui, era arrivato a chiedere ai suoi il «martirio, per evitare questo golpe», un appello disperato. E dopo quelle parole, scontri furiosi. Fonti mediche denunciavano a Giza sette morti per colpi di arma da fuoco, anche se il bilancio di quelle ore sarà noto non prima di oggi. Che sarà più che mai una giornata chiave per questo Paese, la speranza che la nuova crisi si concluda in tempi brevi e pacificamente sembra allontanarsi.

Cecilia Zecchinelli


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