Ultimatum dell’esercito a Morsi «Ascolta la piazza o interveniamo»

by Sergio Segio | 2 Luglio 2013 7:48

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IL CAIRO — La notizia è esplosa ieri pomeriggio in Egitto, dove milioni di persone ormai si aspettavano che l’esercito facesse sentire la sua voce dopo la Grande Protesta contro il raìs Mohammad Morsi iniziata domenica, dopo le violenze seguite nella notte (16 morti e la sede dei Fratelli musulmani attaccata e distrutta), dopo l’avvertimento già lanciato dai militari una settimana fa. «Le Forze armate danno un ultimatum di 48 ore alle parti politiche come ultima chance per risolvere questa crisi storica, non c’è più tempo», ha annunciato in tv il generale Abdel Fattah Al Sisi, capo dei militari. «Parti politiche» e non Morsi, ma un’intesa tra opposizione e Fratellanza è improbabile: sempre respinta da entrambe, non è nemmeno considerata dai dimostranti. Poi Al Sisi ha aggiunto che «l’esercito non vuole il potere politico e imporrà la sua roadmap includendo tutte le forze patriottiche, a meno che non siano accolte le richieste espresse dal popolo». La prima è proprio che il raìs e i Fratelli si facciano da parte dopo questi 12 mesi disastrosi. Poi un governo tecnico, le elezioni.

«È un colpo di Stato», ha tuonato in serata un portavoce di Morsi, che non si è fatto sentire né vedere. «Ma il presidente è convinto che questo non potrà accadere senza il benestare degli americani». L’ultima speranza del raìs pare così riposta nel rifiuto degli Usa ad abbandonarlo dopo solo un anno dalle elezioni vinte democraticamente. Posizione seguita a lungo da Washington, ma ora cambiata: Barack Obama domenica e ieri ha ripetuto allarme, inviti al dialogo, ma pure la volontà di non schierarsi. L’opinione diffusa è che l’ultimatum dei generali abbia però avuto il via libera da Washington: la notizia che ieri mattina Al Sisi avesse «parlato» con il capo di Stato maggiore Usa, generale Martin Dempsey, ne è stata poi una conferma.

Già da ore era però evidente il crescente isolamento del raìs. «Dalla notte di domenica la nostra sede al Cairo è stata attaccata per 17 ore, le tv trasmettevano tutto in diretta ma esercito e polizia non sono intervenuti», ci aveva detto ieri mattina il portavoce dei Fratelli Jihad Haddad al presidio di Nasr City, protetto da file di barbuti armati di spranghe. «Ma ci sapremo difendere da soli, in passato abbiamo porto l’altra guancia e abbiamo sbagliato». Nell’attacco sono morte otto persone, soprattutto «black bloc» uccisi dai cecchini nel palazzo assediato. Ieri altri segnali dell’indebolimento della Fratellanza: 15 guardie del suo uomo forte, Khairat Al Shater, sono state arrestate perché in possesso di armi illegali usate nella difesa delle sede attaccata. Intanto voci sul divieto di espatrio per il raìs si alternavano ad altre, più inquietanti, sulla «mobilitazione» di tutti i suoi sostenitori a difesa del «potere legittimo» con «tutti i mezzi». Cinque ministri si sono dimessi, come molti senatori tra cui dei cristiani.

«Diamo il benvenuto al nostro grande esercito che ha detto a Morsi di andarsene», ha salutato l’ultimatum Mahmoud Badr, leader del movimento Tamarrod (ribellione) che ha ricomposto (per ora) l’opposizione, raccogliendo 22 milioni di firme anti-Morsi e guidando le proteste. «Invito tutti a manifestare fino alla scadenza imposta dai generali, che non vogliamo al potere ma metteranno fine al regime e consentiranno le elezioni». La più parte dell’opposizione politica, e della gente esasperata, pensa o almeno spera lo stesso. «È un’opportunità storica che dobbiamo cogliere», ha dichiarato l’anziano Amr Moussa, uno dei leader del Fronte nazionale di salvezza. E mentre nei talk show tanto adorati dagli egiziani si dibatteva se questo fosse o no un golpe, a Tahrir e intorno al palazzo presidenziale, centri della ribellione, la gente inneggiava all’esercito. I caroselli nel cielo sopra la piazza-simbolo di cinque elicotteri militari con enormi bandiere egiziane appese al di sotto sono stati accolti da boati ed evviva. Gli stessi che un anno fa salutavano l’elezione di Morsi contro il «candidato di Mubarak» e la fine della lunga reggenza dei generali. Ma questo, appunto, era un anno fa.

Cecilia Zecchinelli

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